Particolare della copertina di Camera Works, 1984

Nel 1984 la Thames & Hudson pubblica i lavori fotografici di David Hockney, Camera Works. È una raccolta della sua ricerca intensa e geniale realizzata con fotocollage di Polaroid (Composite Polaroids) e stampe da pellicola (Photographic collage). Si parla, per questi lavori, di “fotocubismo”, e certamente la radice è quella, ma il punto di partenza è più probabilmente il Boccioni cubo-futurista, il Boccioni che moltiplica le sfaccettature dell’amata madre e la incastona nello spazio circostante, uno spartito di prismi arabeschi e vortici. Un Boccioni che aggredisce lo spazio col machete cubista ma che non rinuncia alle squillanti cromie e ai turbini d’energia.

 
Sopra Umberto Boccioni, Volumi orizzontali
(La Madre), 1911; a destra David Hockney,
Mother I, Yorkshire Moors, August 1985


Un Boccioni di cui restano evidenti tracce nei fotocollage di Hockney, incluso l’evidente duplice omaggio: al pittore e alla propria madre, lo sguardo tenero, vestita a festa per l’occasione. Le tracce più vistose, oltre la frammentazione dell’unità ottica, sono certamente nelle dominanti cromatiche e nei turbinii che nei lavori di Hockney si stemperano e fluttuano pigri sul fondo della sua piscina.

Il punto di partenza di Hockney è in definitiva semplice: la fotografia è un frammento. Una porzione di spazio ritagliata in una frazione di tempo. Un frammento spaziale e temporale. Noi lo sappiamo, ma ci piace rimuovere questa banale realtà e considerare la fotografia come specchio della “Realtà”.

 
Sopra Bambini, a destra lo scultore Henry Moore

Hockney non si limita a metterci davanti agli occhi la natura frammentaria della fotografia, in tutta evidenza, ma nel ricomporre l’unità di cui è parte ci indica che la “realtà”, qualsiasi cosa sia, ha molteplici sfaccettature, è poliedrica, è un mosaico. E che la foto ne è solamente un tassello: Hockney utilizza la stampa o la Polaroid come una fototessera.

Henri Cartier-Bresson danzava intorno al suo soggetto. Perché cercava l’inquadratura. Hockney ha sicuramente fatto altrettanto, ma non per cercarne una, bensì per trovarne tante, per moltiplicare le inquadrature. Una danza quasi ossessiva, forse buffa, dove lo scatto sostituisce il contatto fisico. La madre osserva con dolcezza il figlio che la tempesta di foto da tutte le posizioni, ma i bambini s’annoiano a star fermi incalzati dai clic, dagli spostamenti. E si vede bene. Hockney s’avvicina, si sposta, s’allontana; s’abbassa e si alza. E il soggetto assiste paziente allo strano rituale.

La “realtà”, dunque, come mosaico. Ma anche, soprattutto, come puzzle, cioè come enigma, come mistero la cui totalità ci sfugge, e vano sarebbe il tentativo d’inseguirla per restituire la sua irriducibile complessità. Persino e solo nel suo aspetto di parvenza, quando ci si manifesta come una semplicissima sedia; la stessa, forse, che assillava anche Kosuth, ma in tutt’altro modo; Kosuth è figlio del pensiero tedesco, categorizza; ci consola, in definitiva, spiegando che comunque la sedia la afferriamo, magari come triade composta da concetto rappresentazione e oggetto. Hockney è figlio dell’empirismo inglese, e non può che saltellare infaticabile intorno alla sedia per mostrarci la sua inesauribilità.

Il fascino dei fotocollage di Hockney è che ci insegnano, anche, ad accettare la totalità come ciò che mette continuamente in scacco la nostra capacità di conoscere e comprendere. Con ironica serenità.


La galleria dei lavori


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