I luoghi della Rimembranza
Maurizio Nicosia
In italiano esistono quattro parole per indicare l’atto di memoria: il ‘rammemorare’, o ‘tornare alla memoria’; il ‘rammentare’, o ‘tornare alla mente’; il ‘ricordare’ o ‘tornare al cuore’, dal latino cor cordis; il ‘rimembrare’, letteralmente: ‘rivivere nelle membra la memoria’, rivivere con tutto il corpo. Rimembrare ha quindi in italiano un duplice significato, cioè il restituire alla memoria, ma anche il ricostituire. Infatti ‘smembrare’ è esattamente il contrario di ‘rimembrare’ e indica il ‘fare a pezzi’. Ecco perché parlerò dei “luoghi della rimembranza”. Il mosaico è effettivamente, in origine, “luogo della rimembranza”.
Con queste note cercherò di sintetizzare quale filosofia si sostanzi nel mosaico. Può stupire che vi sia una filosofia nel mosaico, ma bisogna considerare che in età antica non v’è differenza netta tra arte, scienza e religione; anzi arte scienza e religione sono la stessa cosa. Può talora capitare che in certe civiltà l’arte, la scienza o la religione abbiano il primato, ma in genere esse vivono reciprocamente continui scambî.
Bisogna considerare anche che la filosofia antica non è un sistema astratto di pensieri come si può pensare sia oggi, ma è semmai una pratica di vita, e ne parla egregiamente uno storico francese, Hadot, in Esercizî spirituali e filosofia antica: anticamente la filosofia è, piuttosto, una concreta pratica di vita che comporta degli esercizî, esercizî quotidiani, per far sì che l’uomo viva e giunga al termine della vita con la pienezza dei sensi, con la pienezza del senso. Sia gli Stoici che gli Epicurei, e massimamente Pitagorici e Platonici praticavano questi esercizî. Un esercizio stoico, descritto anche nel De rerum natura di Lucrezio, è quello dell’attenzione, la prósoké. Lo Stoico continuamente memorizza il campo visivo, è un esercizio di continua attenzione per mantenere desta la coscienza, ogni istante.
Dire dunque quale filosofia si sostanzia nel mosaico significa in altre parole che il mosaico era un processo operativo attraverso cui l’individuo, il mosaicista, aveva modo di connettersi al cosmo, al mondo intero. Ciò ci riconduce alle origini del mosaico, ovvero al luogo, e quasi sicuramente il luogo originario del mosaico è Alessandria d’Egitto. Nasce lì sia l’opus tessellatum, che è il mosaico pavimentale a piccole tessere, sia l’opus musivum, che è un tipo particolarissimo di mosaico.
Proprio ad Alessandria, nell’epoca dei Tolomei, si sviluppa una nuova tecnica musiva, l’opus musivum. E col calco italiano di musivum oggi si indica ogni genere di mosaico. Ma esso ha una caratteristica unica perché, mentre tutte le altre opera indicano la tecnica (per es. opus tessellatum, composto di tasselli; opus sectile, tagliato geometricamente; opus incertum, composto di pezzi rotti) nel caso dell’opus musivum il termine non indica la tecnica, bensì il luogo di destinazione dell’opera.
L’opus musivum decorava le fonti dedicate alle Muse e ‘mosaico’ ancor oggi è l’unica parola, con musica, che indichi le Muse. Le Muse non rappresentavano come si ritiene oggi semplici personificazioni delle arti, rappresentavano molto di più. Ad Alessandria, dunque, cominciano a costruire le opera musiva, e il loro nome è Musaea. Si tratta di fontane, per lo più a tre nicchie arcuate, decorate da tessere di pasta vitrea, utilizzate anche per decorare le navi. Tolomeo aveva sulla propria nave una grotta dionisiaca decorata in opus musivum. Anche Gerone siracusano aveva una nave decorata allo stesso modo.
Perché dunque proprio ad Alessandria la nascita del mosaico, dell’opus musivum? In quell’epoca Alessandria è un crogiolo di razze, di lingue, di religioni. La famosa biblioteca, quella che andò bruciata, conteneva anche i libri di Aristotele. È lì che l’alchimia occidentale si è sviluppata, con Bolo di Mende e Zosimo di Panopoli. È lì che si vanno formando quelle particolari tendenze cultuali, misteriche, esoteriche come la Gnosi, l’Ermetismo. Vi affluiva il pensiero ebraico con Filone ebreo, e proprio in questo grande crogiolo Tolomeo fece costruire il primo museo, il primo luogo delle Muse che non era, come lo pensiamo oggi, una collezione di oggetti. Il museo, nelle intenzioni dei Tolomei, era piuttosto il luogo dove si coltivavano le scienze che le Muse donano agli uomini.
Abbiamo un’idea ancora vaga e approssimativa di quell’epoca, ma se approfondissimo veramente la storia di quell’epoca, e non solo in senso storico–filologico, vedremmo che le radici della civiltà occidentale sono lì. Lì vi è in nuce tutto lo sviluppo che ha dato corso alla civiltà occidentale, come un fiume carsico che s’inabissa e riappare. Le Muse, dunque, non semplicemente e solamente personificazione delle arti, ma qualcosa di ben più complesso. Dai testi dell’epoca ci rendiamo conto del perché alle Muse si dedicassero questi luoghi talmente importanti, talmente significativi da essere diffusi in tutta l’area del Mediterraneo. Questi piccoli Musaea li troviamo anche a Pompei, a Ercolano, a tre nicchie decorate col mosaico.
È il tema della caverna di Platone che si concreta nei Musaea, il tema della grotta o dell’antro, cui un platonico come Porfirio ha dedicato un intero libro, il De antro Nimpharum. Le Ninfe sono molto prossime alle Muse, anzi talvolta coincidono. Porfirio ricorda: “Zoroastro per primo consacrò in onore di Mitra un antro naturale bagnato da sorgenti e coperto di fiori e foglie”. Ispirandosi a queste credenze, scrive Porfirio, i Pitagorici e in seguito Platone definirono il mondo come antro o caverna.
È celebre il mito della caverna di Platone. Dopo la fase dei Dialoghi il filosofo usa parlare per immagini, per metafore, per simboli –e non per allegorie. La caverna è per Platone il simbolo della condizione esistenziale. “Gli uomini –dice– vi sono incatenati sin dalla nascita e costretti a guardare la parete della caverna senza poter vedere altro, avendo alle spalle un fuoco che proietta le ombre sulla parete, e l’uomo del mondo non vede altro che quest’ombra”. Platone accenna anche a quel che può avvenire se l’uomo riesce a liberarsi dalle catene e a vedere la vera luce, ma la condizione media, quotidiana dell’uomo, è precisamente quella d’essere metaforicamente incatenato e di cogliere della realtà, della sua profondità, solo l’ombra.
A immaginare i Musaea decorati con l’opus musivum, negli angoli delle ville ellenistiche e romane, tra le fronde il verde le piante, un po’ ombrosi, si comincia a intendere qual era il senso del mosaico. Gli uomini di quell’epoca, dinanzi al mosaico, al mosaico fatto di luce, che pur la rifletteva, vedevano un’ombra della realtà. Potevano meditare, appunto, sulla condizione della vita, e immaginarsi la liberazione dalle catene che separano l’uomo dalla luce.
Un culto particolarissimo era dedicato alle Muse dai Pitagorici e dai Platonici. Giamblico nella Vita pitagorica scrive che quando Pitagora giunse a Crotone il governo della città lo invitò nell’assemblea e gli chiese se avesse qualcosa d’utile da dire ai cittadini. Allora Pitagora consigliò di costruire un tempio alle Muse affinché queste “conservassero la concordia, l’armonia che regnava tra i cittadini. Infatti queste dee –prosegue Giamblico– hanno tutte lo stesso nome e secondo la tradizione costituiscono una comunità”. Inoltre, sottolinea Giamblico, il coro delle Muse “è sempre uno e il medesimo e in sé comprende: accordo, armonia, ritmo, e tutto quanto crea concordia. La potenza delle Muse governa non solo i più nobili principî delle scienze ma anche l’accordo e l’armonia dell’universo”.
È evidente che le Muse hanno un ruolo ben più complesso di semplici personificazioni. Sempre Giamblico ricorda che a Metaponto, quando Pitagora andò via, la sua casa venne trasformata in tempio dedicato alle Muse: un atto di devozione nei confronti del principio primo, compendiato dalle Muse. Perciò Giamblico sottolinea che “Il coro delle Muse è sempre Uno e il medesimo”. Il medesimo o l’identico, l’identità, è uno dei poli centrali del Timeo di Platone. L’universo, in fondo, è uno dei temi centrali della filosofia platonica: la cosmogonia, ovvero l’origine del mondo e come dall’Uno originario –che Plotino chiamava solo Uno– si giunga al molteplice. Era un processo che veniva descritto col Delta, e non è un caso che Alessandria d’Egitto sia stata fondata sul delta del fiume da cui promana la vita per la civiltà egiziana.
Il delta rappresenta sinteticamente proprio il processo che dall’Uno genera il molteplice, ciò che i Platonici chiamavano emanazione. Lo sforzo più grandioso, a cui il platonismo ha dedicato moltissima riflessione, consiste proprio nello spiegare come dall’Uno si giunga al molteplice. È nel corso di questo lavorìo del pensiero che le Muse divengono immagine del percorso cosmogonico: “la potenza delle Muse –osserva Giamblico– governa non solo i più nobili principî delle scienze ma anche l’accordo e l’armonia dell’universo”.
È un ruolo molto importante, anzi cardinale: sono le Muse che mantengono l’ordine (in greco Kreon, da cui ‘creare’, ‘creazione’). Quindi dedicare una fontana anche piccola alle Muse non si può ridurre a un semplice gesto di decorazione del giardino, ma rappresenta ben di più: la creazione d’una nicchia, un antro dinanzi al quale meditare mediante quegli esercizî quotidiani di filosofia, e meditare il principale esercizio, quello di collegarsi alla vita del cosmo, divenendo parte cosciente del tutto. L’uomo antico che meditava davanti ai Musaea si riconnetteva immaginativamente con il cosmo intero, diveniva parte consapevole della catena infinita che lega l’Uno e il molteplice.
Ma perché proprio le Muse? Troviamo già nei mitologemi relativi alle Muse il motivo del mosaico, di queste piccole ‘pietre’ infisse nella malta. Racconta il mito che le Muse, quando ancora si chiamavano Trie (subiscono la stessa processione dall’Uno al molteplice e quindi da Mnemosine divengono tre –le Trie, e infine nove), sull’Elicona avevano insegnato a Ermes come predire il futuro, osservando la disposizione dei sassolini in un catino d’acqua perché le Muse, oltre le arti e la scienza, insegnavano ciò che è stato, che è e che sarà, insegnavano in sostanza la Sofia, cioè vedere il destino dell’universo. È da sottolineare questa singolarità: le Muse leggono il futuro attraverso la disposizione di sassolini in un catino d’acqua. E i Musaea sono effettivamente dei “catini d’acqua con dei sassolini”.
I Pitagorici, quando ragionavano sui numeri utilizzavano dei sassolini. Per un Pitagorico il numero non è un’entità astratta, è una realtà spirituale che vive nello spazio. Alla “spazializzazione dei numeri” si può ricollegare l’uso del mosaico, e persino il termine ‘tessera’, che in greco ancor oggi significa ‘quattro’. Il quattro nella filosofia pitagorica è il solido, la solidità: è l’immagine del mondo. Nel Timeo di Platone il cubo è il simbolo della Terra, quindi la singola tessera incarna proprio il punto estremo del passaggio dall’Uno al molteplice: è il punto finale dell’emanazione, lo sviluppo del cosmo.
Si tratta adesso di capire come questa filosofia si sostanzia nel mosaico. I temi più frequenti nei Musaea, ma in genere nel mosaico pavimentale o parietale, sono le figure divine di Orfeo, Dioniso, Atteone, Osiride. Figure apparentemente diverse tra loro, vivono in realtà, tutte, lo stesso destino. Sia Orfeo che Atteone e Osiride sono divinità che vengono smembrate, fatte a pezzi. Muoiono crudelmente e rinascono. Orfeo viene lacerato; di lui si salva solo la testa. Di Dioniso si salva una parte un po’ più compromettente. Osiride è fatto a pezzi da Seth e la moglie–sorella Iside è costretta a cercarlo e con estrema fatica lo “rimembra”.
Ciò non significa che il mosaico ritragga solo queste divinità, ma ancora molti storici si chiedono come mai in Gran Bretagna il soggetto dei mosaici pavimentali sia sempre, ossessivamente, Orfeo. Eppure non è così difficile intenderne la ragione: è figlio d’una Musa, la musica è il suo elemento, muore smembrato e ciclicamente si “rimembra”. Orfeo, in realtà, è la quintessenza del mosaico. È un momento centrale dell’epoca ellenistica, il passaggio dalle divinità olimpiche –nel cielo, sempre, divinamente e sommamente distaccate dall’uomo– ai culti misterici in cui invece la divinità soffre, e soffre tremendamente il destino dell’uomo e della terra.
Tutte queste divinità condividono il destino dell’uomo e della terra e ciò spiega anche come mai in quell’epoca il cristianesimo ebbe tanta fortuna e si propagò così rapidamente. I cristiani poterono presentare Cristo come il Dio che si è incarnato nella Storia, come quel Dio mitico –fosse Osiride, Orfeo– che però è vissuto realmente nel mondo e realmente è morto e risorto. Ecco perché veniva inteso così facilmente il Cristianesimo: in tutto il bacino del Mediterraneo questi culti avevano già preparato gli uomini all’idea di un dio che soffre. Queste divinità –le chiamo gli smembrati, coloro che vengono fatti a pezzi– di cui pietosamente si raccolgono le disjecta membra, furono presentate come prefigurazioni mitiche d’un evento storico.
Ecco perché il mosaico è “il luogo della Rimembranza”. Perché letteralmente il mosaicista “rimembrava” il dio morto, nell’esercizio del mosaico e attraverso il mosaico rinato. È un errore insistere sulla frammentazione nel mosaico. Finché si parlerà di mosaico come di ciò che è frammentato non lo si riuscirà a intendere appieno. Perché il mosaico è l’esatto contrario. Attraverso la pratica del mosaico il mosaicista poteva vivere in prima persona la filosofia platonica, ripercorrendo quel tragitto cosmogonico dall’Uno al molteplice e poi a ritroso, à rebours, dal molteplice all’Uno.
Come lavora il mosaicista? Lavora con la sabbia, analoga alla materia prima, hyle, che nel Timeo di Platone viene contrassegnata come il diverso, perché essa deve continuamente accogliere il diverso ed essere diversa da ciò che accoglie affinché lo possa generare, mentre il principio generatore è l’identico, è il medesimo. Tutta la tecnica musiva continuamente oscilla fra questi due poli. Il mosaicista parte dalla sabbia, il molteplice informe, l’indistinto privo di forma. Poi la sabbia viene sottoposta all’azione della fiamma, viene purificata (dalla radice indoeuropea pyr, ‘fuoco’) e dalla molteplicità si torna all’Uno del blocco di smalto. Ma come nella cosmogonia del Timeo, raggiunta questa unità, nuovamente deve essere divisa, per porla in termini d’accordo fra sé e le altre parti; e il mosaicista infatti nuovamente taglia il blocco di smalto, dà luogo al molteplice ‘formato’, alle tessere, corrispondenti a ciò che nella filosofia platonica sono i germi di tutte le esistenze.
Si giunge così alla frammentazione totale, le singole tessere. La prima fase del processo è compiuta con la tessera, il solido, la solidità, ma la tessera viene ricomposta nell’unità dell’Opera e diviene, in un processo ascensionale, Uno. Chi si avvicina molto al mosaico vede le tessere e perde di vista l’Opera. Quanto più ci si avvicina al mosaico, tanto più si vede la materia; se ci si allontana si vede la forma e non si vede più la materia; se ci si allontana ancora non si vede più la forma e si vede la luce. E continuamente, dalla luce alla materia, dalla materia alla luce, il mosaico per il mosaicista e l’uomo antico schiudeva il percorso cosmogonico, tutta la fase cosmogonica di creazione, e soprattutto il ritorno all’Uno.
In questo modo il mosaicista poneva in atto le due indicazioni fondamentali di Platone. La prima: Téchne ed Epistéme devono sempre essere congiunte. Téchne, cioè l’arte, l’operare. Epistéme, ovvero la scienza, il contemplare. La seconda: per procedere nella conoscenza delle cose è necessario prima disgiungere, separare (lo chiamava diáiresis, da cui dieresi) e poi unire, synagoghé, mettere insieme. Il mosaicista nel dividere, secondo il consiglio di Platone, seguendo le nervature delle cose, opera il processo di diáiresis e quindi nella composizione del mosaico giunge alla synagoghé. Il testamento di Plotino per i suoi discepoli è contenuto in una splendida massima: “ricongiungere il divino che è nell’uomo al divino che è nell’universo”.
È questa la Rimembranza racchiusa nel mosaico. Difficile avvertirla con gli strumenti dell’archeologia o della storia. Poteva essere avvertita solo da un grande poeta, animato dall’afflato della philosophia perennis; da un poeta come Yeats: “se mi fosse concesso di vivere un mese nell’antichità –confessava– credo che vorrei passarlo a Bisanzio, un po’ prima che Giustiniano aprisse Santa Sofia e chiudesse l’accademia platonica. Credo che potrei trovare in una qualche osteria un mosaicista ‘filosofo’ che saprebbe rispondere a tutte le mie domande, poiché il sovrannaturale discende più vicino a lui che allo stesso Plotino”.
Il mosaico è dunque in questo senso luogo della Rimembranza. Non solo perché raffigura le divinità smembrate, ma perché esso stesso, come queste divinità, frutto dello smembramento, viene ri–membrato ed è concreta testimonianza di questo ciclico processo cosmico. In questo senso il mosaico è immagine della comunanza, del mettersi insieme e perciò è il luogo delle Muse, che secondo la tradizione costituiscono una comunità. Giamblico insisteva sul carattere di questa comunità: “il coro delle Muse è sempre uno, è il medesimo e in sé comprende accordo, armonia, ritmo e tutto quanto crea concordia”.
Quando un Greco diceva ‘armonia’ gli era trasparente la derivazione dal verbo harmózo, ‘congiungo’. Creare una cosa armonica significava che le sue parti erano accordate tra loro in senso musicale. Tutta la processione degli esseri nel Timeo è frutto d’una armonizzazione secondo le consonanze che ancor oggi governano la musica: il diapason, l’accordo d’ottava; il diapente, l’accordo di quinta; il diatessaron, l’accordo di quarta.
Non è questa l’occasione idonea per dimostrare come e quanto l’armonia si sostanzi nel mosaico; a titolo d’esempio basti segnalare che la basilica ravennate di San Vitale è integralmente costruita su un sistema di tripartizione del lato del quadrato, che ne divide l’area in nove parti uguali –il numero delle Muse– e che i sistemi decorativi sono tutti in diapente, in accordo di quinta. Nel senso più alto il mosaico era esprit de géométrie, nel senso letterale e profondo del termine.
Quindi sia i soggetti, sia la tecnica, tutto riconduce al medesimo ambiente, al medesimo motivo, e ciò spiega anche perché fra i mezzi artistici antichi il mosaico sia stato assunto a mezzo per eccellenza dalla civiltà bizantina, in cui raggiunge il suo apogeo. A Bisanzio, dove la tradizione greca e cristiana si congiungevano perfettamente, dove il tema così delicato e complesso dell’armonia fra le immagini e lo spirito è stato dibattuto vivamente.
Il mosaico è luce, ma paradossalmente va pensato come ombra, ombra di quella vera luce che abbiamo alle spalle e non possiamo vedere. Ombra di quella vera luce che l’uomo greco o romano immaginavano e pensavano intimamente quando si trovavano davanti ai Musaea. Ancora nel Medioevo l’abate Suger ci restituisce questa antica disposizione d’animo che l’uomo dell’età alessandrina coltivava dinanzi al mosaico:
quando con mio grande diletto, nella bellezza della casa di Dio, l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne –mi ha strappato cioè alle distrazioni del mondo– e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, sulla diversità delle sacre virtù, allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra, né è del tutto librata nella purezza del cielo e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato, da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica.
Davanti alle “pietre multicolori” l’abate Suger prova tutto ciò, e ascende al regno delle Virtù. Il mosaico costituiva dunque uno strumento di meditazione. Più di uno strumento, rappresentava la meditazione sulla luce, la possibilità di vivere attraverso lo splendore della forma il percorso ascensionale che riconduce all’Uno, d’incarnare il motto di tutti i Platonici: E pluribus Unum, dal molteplice all’Uno.