L’immagine contemporanea di Ravenna è legata indissolubilmente alle sequenze cinematografiche di Deserto rosso (o meglio, Il deserto rosso, come indicato nei titoli di testa) di Michelangelo Antonioni del 1964.

Quest’opera porta alla ribalta una “figura” completamente diversa di Ravenna rispetto allo stereotipo di “città del silenzio” che aveva pressoché ininterrottamente caratterizzato la nostra città nell’immaginario letterario di viaggiatori e scrittori (con rare e per ciò stesso significative eccezioni, da Vernon Lee a Simon Weil a quella, davvero straordinaria per l’acutezza ed ironia che la pervade, che ci ha lasciato il Signor Dido, alias Alberto Savinioalias Andrea De Chirico, in Sentimento di Ravenna, 1951).

In Deserto rosso infatti, apparentemente, il “silenzio” è definitivamente rotto dai rumori delle fabbriche; ma un’esistenzialistica incomunicabilità tra i personaggi, l’impossibilità di un vero dialogo, l’isolamento dei protagonisti, chiusi ognuno nel loro mondo (e non soltanto Giuliana/Monica Vitti, che invece tenta disperatamente di rompere quel muro che la separa dagli altri –come non pensare al surreale colloquio col marinaio turco–, non ricevendone che incomprensione ed egoistico tornaconto sessuale, sia da parte sia di Ugo, il marito, che di Corrado, l’amante), sembra ribadire di nuovo quello stereotipo, anche se declinato certamente secondo un’ottica diversa.

Ma il film di Antonioni presenta molte trappole, motivo per cui occorre andare assai cauti. In Deserto rosso regnano le antinomie: città/deserto, grigiore/colore, natura/artificio. E non è detto che Antonioni sposi completamente una delle due polarità.

Ciò appare particolarmente evidente nel caso dell’ultima: Deserto rosso non è un film “verde”. Se può sembrare, come ha ammesso di sfuggita lo stesso Antonioni, che «sì, forse è un film che anticipa la tematica ecologica; a quel tempo ancora non se ne parlava», 1 non è questo che gl’interessa. Antonioni, piuttosto, non fa che mostrare un processo in atto da tempo, che forse i ravennati –ma più in generale tutti gli italiani– fanno finta di non vedere:

Volendo potrei parlarvene a lungo e dirvi che nessuno s’interessa agli alberi da queste parti, e che nella palude e nei canali arrivano gli espurghi delle fabbriche e le acque sono nere o gialle e anzi non sono più acqua, domandatelo ai pesci che hanno la pancia piena di petrolio. In mezzo agli alberi ci passano le navi ormai, è il secondo porto d’Italia Ravenna, lo sapete?
Il mito della fabbrica condiziona la vita di tutti, qui, la spoglia d’imprevisti, la scarnifica, il prodotto sintetico domina, prima o poi finirà per rendere gli alberi oggetti antiquati, come i cavalli. Dare per scontata la fine del bosco, fare di un pieno un vuoto, sottomettere scolorendola questa antica realtà alla nuova, che è altrettanto suggestiva: non è questo che avviene qui da anni in un flusso che non si ferma mai? 2

Il paesaggio di Ravenna è tutto artificiale –«altrettanto suggestivo» di quello naturale, come il regista sottolinea!–; dunque, se c’è ancora del “verde” è in realtà quello «di una esilissima ciminiera che tagliava orizzontalmente la fabbrica per poi salire a un’altezza prodigiosa, elegante e potente nella sua asciuttezza, più di qualsiasi albero». 3

È questo il motivo per cui Antonioni usa in modo del tutto artificiale il colore intervenendo con filtri e addirittura, novello “giardiniere della Regina di cuori di Alice nel paese delle meraviglie”, decide che il bosco di pini dev’essere bianco, per fare da sfondo ideale a ciò che lui vuole mostrare attraverso la telecamera: «quel verde andava eliminato se volevo che il paesaggio acquistasse una sua originale bellezza, fatta di grigi aridi, di neri imponenti, e semmai di pallide macchie rosa e gialle, tubi o cartelli lontani». 4

Cosa c’è di più “innaturale” di un sopravvissuto bosco di pini in mezzo a uno scenario industriale che sta radicalmente trasformando il volto del territorio? “Naturale” è che sparisca, sono ancora parole di Antonioni, «per lasciar posto a uno spazio nuovo da riempire con altre sagome, altri volumi, altri colori». 5 I veri alberi, come già detto, sono le ciminiere.

Nessun rimpianto per il “buon tempo andato”: assoluto disincanto, quello del regista ferrarese. Ed ecco che nel buio, alla luce dei proiettori, una scena surreale si svolge sotto l’inflessibile regia di Michelangelo: uno stuolo di uomini al lavoro, al freddo, coperti di vernice bianca dalla testa ai piedi. Il bianco “si addice” a Ravenna, come il lutto a Elettra: quel bianco «in technicolor sarebbe risultato grigio, come il cielo di quei giorni o come la nebbia o come il cemento». 6

Ed ecco il “grigio”, l’altro “colore” di Ravenna, il grigio della nebbia che per altri versi è anche il grigio dei sentimenti dei personaggi di Antonioni (e quanto mai significativa è la scena di piccola “orgia romagnola” che si svolge nel capanno, col contrasto tra il rosso delle assi di legno dipinte dell’interno del boudoir (simbolo certamente della libido erotica) e il grigio della nebbia all’esterno in cui a un certo punto, in una scena magistrale, i personaggi, completamente “stanti” e significativamente “separati” gli uni dagli altri, per un momento svaniscono.

Ma il tempo è imprevedibile e, dopo una notte di lavoro da parte degli operai “schiavizzati” dall’inflessibile volontà del resista, quello che Antonioni temeva per il giorno dopo –cioè il sole che, spuntando dietro il bosco avrebbe fatto apparire quest’ultimo, in controluce, scuro– accade. Appaiono di nuovo i colori, e questa volta, della natura.

In conclusione, come ha scritto Antonioni, «Io spero che anche queste immagini siano viste come una sommaria introduzione a un film che forse va più sentito che capito. Niente di difficile e misterioso. In ogni caso niente di più difficile e misterioso della vita che tutti viviamo». 7

Che vita vive oggi la Ravenna post antonioniana? Quale sarebbe l’immagine che il regista ne trarrebbe se girasse oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, quel film? La Ravenna di Antonioni non esiste quasi più. La SAROM è stata dismessa, la centrale elettrica di Porto Corsini s’è rifatta il trucco, i mosaici di Deluigi sono stati strappati e messi in un magazzino (a quando, a proposito, la loro ricollocazione in un luogo più degno di una città che ambisce a diventare Capitale Europea della Cultura?). La zona industriale e il porto, con la parziale dismissione delle attività industriali, sono divenuti un’opportunità, si dirà. Ma saremo all’altezza di questa? O i primi segnali indicano, di nuovo, che qualcuno metterà le “mani sulla città” considerando esclusiva proprietà quello che dovrebbe interessare tutti?

Deserto rosso, nel bene o nel male (non voglio dimenticare che non tutti gli uomini sono riusciti, come gli uccellini di cui parla Giuliana nell’ultima scena del film, a “evitare” il fumo giallo delle ciminiere) 8 ha fotografato un’immagine indelebile della città. Quale lasceremo noi?

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Michelangelo Antonioni, Il deserto rosso, parte 1/9


  1. M. Antonioni, La storia del cinema la fanno i film, intervista di Aldo Tassone, originariamente ma senza titolo in A. Tassone, Parla il cinema italiano, volume primo, Milano 1979, Ed. il Formichiere, pp. 29-49: 37 (ora in Michelangelo Antonioni, Fare un film è per me vivere: Scritti sul cinema, a cura di C. Di Carlo e G. Tinazzi, Venezia 1994, Marsilio, pp. 172-191: 180).
  2. M. Antonioni, Il bosco bianco, in Id., Il deserto rosso, a cura di C. Di Carlo, Bologna 1972, Cappelli, pp. 7-13: 12 (ora in M. Antonioni, Fare un film è per me vivere…, cit., pp. 80-84: 83-84).
  3. Ibid., p. 11 (p. 82).
  4. Ibid.
  5. Ibid.
  6. Ibid.
  7. M. Antonioni, Il mio deserto, in «L’Europeo», 16 agosto 1964 (ora in M. Antonioni, Fare un film è per me vivere…, cit., pp. 78-79: 79).
  8. «Perché quel fumo è giallo?», chiede il figlio  –«Perché c’è il veleno», risponde Giuliana –«Allora se un uccellino passa lì in mezzo, muore»; –ma Giuliana lo tranquillizza: «Sì, ma gli uccellini ormai lo sanno e non ci passano più» (dalla sceneggiatura di Deserto Rosso in Michelangelo Antonioni, Sei film: Le amiche, Il grido, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso, Torino 1964, Einaudi, pp. 433-497: 497).