Il pavimento di Cipreste

Riflessioni su mosaico e architettura

 

È come avere un milione di pezzi di mosaico che non compongono la stessa figura, che non potranno mai essere assemblati e costituire una unità, poiché non provengono da un insieme unitario

Daniel Libeskind, Tra metodo, idea e desiderio, 1991

Narra Leon Battista Alberti nei Profugiorum ab ærumna1 che la tecnica del mosaico ha fatto la sua comparsa nell’architettura non come “ornamento”, come bellezza aggiunta prevista fin dall’inizio, ma semplicemente per colmare un vuoto, per sanare una lacuna nella compiuta perfezione dell’opera: nell’«ornatissimo» tempio di Efeso, infatti, a tutto si era pensato, tranne al pavimento, rimasto «nudo e negletto».
Proprio questo determinerà l’invenzione del mosaico, che riutilizza «e’ minuti rottami rimasi», i materiali scartati dalla costruzione. Il mosaico, dunque, come tecnica di risulta, apparentemente povera, scaturita da una “dimenticanza”.
Cito il passo per esteso perché credo che finora, nell’ambito degli studi sul mosaico, questo brano di Alberti sia passato praticamente inosservato:

Non so se fu Cipreste 2, del quale Vitruvio scrive tanta lode, o se fu altro architetto inventore di questo pingere e figurare, come oggi fanno, el pavimento.
Ma costui qualunque e’ fu trovatore di cosa si vezzosa, forse fu a quel tempio ornatissimo di Efeso, quale tutta l’Asia construsse in anni non meno che settecento; e vide costui a tanto edificio coacervati e accresciuti e’ suoi parieti con squarci grandissimi di monti marmorei, e videvi di qua e di là colonne altissime; e videvi sopra imposti e’ travamenti e la copertura fatta di bronzo e inaurata; e vide che dentro e fuori erano e’ gran tavolati di porfiro e diaspro a suoi luoghi distinti e applicati, e ogni cosa gli si porgea splendido; e miravavi ogni sua parte collustrata e piena di maraviglie: solo el spazzo stava sotto e’ piedi nudo e negletto.
Adunque, e per coadornare e per variare el pavimento dagli altri affacciati del tempio, tolse que’ minuti rottami rimasi da’ marmi, porfidi e diaspri di tutta la struttura, e coattatogli insieme, secondo e’ loro colori e quadre compose quella e quell’altra pittura, vestendone e onestandone tutto el pavimento. Qual opera fu grata e iocunda nulla meno che quelle maggiori al resto dello edificio 3.

Quello che può apparire un intervento “minore” rispetto alle opere «maggiori», in realtà si rivela alla fine «cosa vezzosa», «grata e iocunda». La tecnica del mosaico per Alberti supera poi gli stretti confini dell’architettura per diventare una vera e propria tecnica compositiva degli umanisti:

E veggonsi queste cose litterarie usurpate da tanti, e in tanti loro scritti adoperate e disseminate, che oggi a chi voglia ragionarne resta altro nulla che solo el raccogliere e assortirle e poi accoppiarle insieme con qualche varietà dagli altri e adattezza dell’opera sua, quasi come suo instituto sia imitare in questo chi altrove fece el pavimento.

Alberti qui, tra l’altro, anticipa di secoli la tecnica postmoderna del citazionismo. In quest’opera di assemblaggio la pittura che ne emergerà dovrà corrispondere a un disegno unitario e, come il buon mosaico, non presentare «niuna grave fissura»:

Qual cose, dove io le veggo aggiunte insieme in modo che le convengano con suoi colori a certa prescritta e designata forma e pittura, e dove io veggo fra loro niuna grave fissura, niuna deforme vacuità, mi diletta, e iudico nulla più doversi desiderare.

Il passo si conclude con l’elogio del discorso appena fatto da Agnolo Pandolfini intorno al tema di come rimediare alle sventure, quel suo aver raccolto ciò che presso gli altri scrittori «era disseminato e trito» e avere posto tutte quelle “tessere” «in uno e coattate e insite e ammarginate insieme» facendole «tutte corrispondere a un tuono, tutte aguagliarsi a un piano, tutte estendersi a una linea, tutte conformarsi a un disegno».

Alberti stesso, come letterato e architetto, utilizza spesso questo comporre per tessere in quasi tutti i suoi scritti, veri e propri mosaici di citazioni (spesso celate e alluse), e nelle sue fabbriche, in particolar modo nella facciata del tempio Malatestiano.
Qui, infatti, nello sfondo dell’arcone centrale, Alberti ha creato un vero e proprio motivo decorativo a intarsi marmorei, tessere curiosamente provenienti dalla vicina capitale del mosaico, Ravenna 4.
Ma il mosaico sembra divenire veramente la “cifra” del comporre albertiano. Che cos’è infatti la concinnitas, questo vero e proprio “mito armonico” del De re ædificatoria, se non un vero e proprio “mosaico”, dal momento che concinnitas non è altro che «l’ordinare secondo leggi precise le parti che altrimenti per propria natura sarebbero ben distanti tra loro, di modo che il loro aspetto presenti una reciproca concordanza»? 5
In ciò Alberti appare straordinariamente attuale (pur con tutte le dovute cautele e i pericoli di trasportarlo tout court dal Quattrocento al Novecento e oltre). L’immagine del mosaico come qualcosa che tiene unite parti tra loro discordi ritorna infatti nella riflessione d’un architetto della più stretta attualità come Daniel Libeskind.

In un’intervista a «Domus» del 1991, Libeskind infatti fa ricorso alla metafora del mosaico per descrivere le «contraddizioni insanabili tra il metodo, l’idea e il desiderio»: «È come avere un milione di pezzi di mosaico che non compongono la stessa figura, che non potranno mai essere assemblati e costituire una unità, poiché non provengono da un insieme unitario» 6.
Dunque il mosaico come fatto concreto, come tecnica compositiva, ma anche come atteggiamento mentale, come riflessione sulla complessità del mondo attuale (e forse, testimone Alberti, pure del passato).
Anche alla luce di queste riflessioni, come pensare il rapporto tra mosaico e architettura? Il tema è troppo ampio per poterlo minimamente accennare in poche pagine, ma forse qualche “tessera” può essere già collocata.
Verrebbe in mente subito un parallelo tra architetto e ideatore di mosaici, sul fatto che entrambi vivono una sorta di separazione tra l’ideazione e la realizzazione, affidata sempre ad altri. Ma forse questa sorta di “espropriazione” riguarda assai più l’architetto, dal momento che spesso ideazione ed esecuzione, nell’ambito del mosaico, possono coincidere. Ma è una considerazione che ha fatto il suo tempo.
Si può invece riflettere sul costante rapporto (a volte di sudditanza, a volte di parità e in rari casi anche di predominio) del mosaico con l’architettura.

Un rapporto iniziato assieme, come si è visto nel racconto della nascita del pavimento more Alberti, ma anche testimoniato dall’archeologia e talmente stretto che molti critici (che siano spesso architetti o storici dell’architettura forse non è indifferente) hanno parlato di crisi del mosaico quando questo ha deciso di abbandonare il “supporto” dell’architettura per diventare una sorta di “mosaico da cavalletto” e, contemporaneamente, ha cominciato a tendere sempre più verso l’imitazione della pittura, rifiutando la sua caratteristica più propria, quella di essere un’immagine “frammentata”.
Così Portoghesi: «La decadenza del mosaico che segue la sua più fruttuosa stagione, è legata a una serie di fattori contingenti e si manifesta contemporaneamente a un apparente processo di affinamento tecnico, che è la contropartita dell’inaridimento delle sue ragioni espressive» 7; e in ciò «[…] le pale d’altare di S. Pietro, veri mostri di tecnicismo fine a se stesso, additate all’ammirazione come esempio di perfetta traduzione dei valori pittorici, costituiscono il risultato più noto e paradossale»; seguito da Peter Fischer, che ha sottolineato il «declino del mosaico verso l’illusionismo pittorico» 8, verificandone la crisi quando esso ha abbandonato la superficie muraria dell’architettura.
Opinioni sottoscritte da Giulio Carlo Argan in occasione dell’inaugurazione del Parco della Pace a Ravenna: «Il mosaico è morto, per fortuna in una zona assai limitata, in un momento limitato, quando nel ’500 è stato interpretato come arte di riproduzione di una pittura, invece che come arte di creazione pittorica, e quando per conseguenza gli hanno dato una superficie piana e uniforme come più o meno è quella di una pittura» 9.
A ulteriore conferma, la posizione di Mario Manieri Elia, in occasione dello stesso evento: il mosaico «trova la sua sede più propria nell’espressione architettonica» 10. Il mosaico dunque, lungi dall’essere, banalmente, «la vera pittura per la eternità» 11, sembra possedere come l’architettura una qualità materica che unirebbe il suo destino a quello dell’arte del costruire.
E proprio partendo dal basso, il mosaico si è via via liberato dalla legge aristotelica che spinge i corpi verso la loro naturale collocazione terrena, “arrampicandosi” lungo le pareti e arrivando fino a rivestire volte e cupole.
Un processo di ascensione verso l’alto che già Plinio aveva sottolineato 12 e che porta con sé anche una trasformazione materica del mosaico, da opus marmoreus a opus vitreus, con tutte le conseguenze luministiche e smaterializzanti che conosciamo.

Antoni Gaudi, Casa Batllo

1907 | Antoni Gaudí, Casa Batlló

Se il rapporto tra mosaico e architettura ha raggiunto i suoi vertici con l’età paleocristiana e bizantina, è innegabile come in seguito, tranne poche eccezioni, questo idillio sembra essersi incrinato.
L’utilizzo a scopi retorico-didattici del mosaico presso i regimi dittatoriali non ha certo favorito tale contatto. Da qui l’innegabile diffidenza di molti architetti contemporanei nei confronti del mosaico come applique retorica all’architettura, specialmente –è Portoghesi a sostenerlo– «ove si pensi che, molto spesso, pessime architetture di gusto accademico si servivano di questo mezzo per affermare una pretesa immutabilità di problemi espressivi al di sopra o meglio al di fuori della storia» 13. Una sorta di equazione fra la pittura “eterna” e l’illimitata volontà di durata del potere.

Antoni Gaudi, Park Guell, soffitto della sala delle colonne doriche

1914 | Antoni Gaudí, Park Güell, soffitto della sala delle colonne doriche

Un’eccezione (che però conferma la regola e rimane, forse, un’esperienza difficilmente ripetibile) 14 è naturalmente Antoni Gaudí, in cui il mosaico, o meglio il trencadís (incrinatura) sale in cattedra e prende per mano l’architettura.
La perfetta simbiosi tra l’«architetto mostro» (Manuel Vázquez Montalbán) e lo “scultore folle” Josep Maria Jujol ha prodotto quel mundus imaginalis alchemico-esoterico che è il park Güell; ma, già da solo, Gaudí aveva dato ampia prova di sé col palacio Güell, con la baluginante facciata di casa Batlló e con gli antropomorfici camini e torri scalari di casa Milà.

Antoni Gaudi, Casa Batllo, particolare

1907 | Antoni Gaudí, Casa Batlló, particolare

Con Gaudí il mosaico sperimenta tutte le possibili variazioni, dall’utilizzo dei sassi grezzi, ai patchworks di piastrelle smaltate. Ma il significato vero del mosaico gaudiano è quello messo in luce da Juan José Lahuerta: Gaudí trasfigura gli scarti, i prodotti dell’industria (opera diabolica, per l’architetto catalano), sublimandoli, dando loro una nuova vita, attraverso un processo di redenzione attuato dalla mano dell’artefice che li mette in opera, spesso collocandoli nella parte più sacra dell’edificio: quella che confina con il cielo (vedi i celebri camini e torri scalari delle sue case).

Niki de Saint  Phalle, Giardino dei tarocchi

1996 | Niki de Saint-Phalle, Giardino dei tarocchi

Sulla stessa linea Niki de Saint-Phalle, illuminata proprio dal maestro catalano e dal suo fantasmagorico parco, come tutti possono verificare visitando l’incredibile Giardino dei Tarocchi a Garavicchio 15.
Curiosa anche l’esperienza legata ad un rapporto maniacal-ossessivo col mosaico di due Gaudí “in sedicesimo”: Hyppolite Massé, lattoniere e “tappezziere” della propria casa in Vandea da lui completamente rivestita di conchiglie (nelle più svariate tipologie, dalle vongole ai pettini di mare) e il più famoso “Picassiette”, al secolo Raymond Isidore, custode del cimitero di Chartres che dall’età di ventotto anni comincia ad ammassare grandi quantità di cocci di vetro e ceramiche con cui poi, col proposito di lavorare «come minimo per la [sua] grandeur» 16, riveste completamente tutta la casa e tutti i mobili 17. Andando ben al di là di Cipreste.

Ma una riflessione sul mosaico in senso lato, cioè sull’uso del vetro in architettura, non può che rimandare a Paul Scheerbart e alla sua Glasarchitektur del 1914: nella sua sconfinata e ingenua fiducia che la redenzione dell’umanità (forse quella stessa cercata da Gaudí) risieda tutta nelle qualità salvifiche del vetro, Scheerbart parla naturalmente anche delle tesserine di vetro del mosaico, abbinandole, con qualche decennio di anticipo sulle realizzazioni di Carlo Scarpa, proprio al cemento armato:

Vale la pena di sottolineare che il cemento armato con un rivestimento in mosaico di vetro rappresenta probabilmente il materiale da costruzione più resistente che finora sia stato inventato. Si ha sempre una gran paura che il vetro possa essere distrutto da una mano scellerata. Eppure è rarissimo che i vetri di una finestra vadano in frantumi per una pietra lanciata dalla strada. 18

D’accordo in questo con Ghirlandaio, il poetico e visionario Scheerbart ritiene i mosaici inattaccabili dal tempo essendo «sopravvissuti […] ai secoli e ai millenni». È anche grazie ai mille riflessi dei mosaici della futura glasarchitektur che «gli abitanti di Venere e di Marte sgraneranno gli occhi e non riconosceranno più la superficie della terra», realizzando così finalmente il sogno di Charles Garnier, il progettista dell’Opéra, che «per combattere la tristezza urbana» sognava «una Parigi luminosa di mosaici» 19.

Ma certo la traduzione più fedele di queste pagine non può che essere la scheerbartiana Glashaus di Bruno Taut presentata all’esposizione del Deutscher Werkbund del 1914 a Colonia, un cristallo in ferro e vetro, la cui sala della cascata è un vero e proprio caleidoscopio di tessere di vetro multicolori.

Bruno Taut, Glashaus, interno

1914 | Bruno Taut, Glashaus, interno

Su questa linea, nel segno di una ricerca che pensi al mosaico non come “aggiunta”, ma come modo di comporre che considera gli stessi materiali dell’architettura come “tessere” –dal mattone, al vetro cemento, ai blocchi di calcestruzzo–, possiamo forse indicare alcune realizzazioni emblematiche, prese qua e là nel panorama europeo del Novecento: dalla facciata tatuata da migliaia di tessere del palazzo Portois & Fix di Max Fabiani a Vienna del 1900; alla ornata e “delittuosa” villa Karma a Montreux di un –fortunatamente, visto il risultato– “contraddittorio” Adolf Loos (ornamento e delitto!), internamente rivestita di mosaici e incrostazioni marmoree; alle case “maya” di WrightStorer, Ennis-Brown, Freeman e Millard House–, costruite con cubiche tessere di calcestruzzo tatuato (textile block); al mosaico di “tessere” di vetrocemento del padiglione della RAS alla Fiera di Milano di Piero Portaluppi o alla Maison de verre di Pierre Chareau e Bernard Bijvoet (1928-1931); a molti rivestimenti in tessere di litoceramica dell’architettura degli anni Cinquanta e Sessanta (a cominciare dalle opere di Luigi Caccia Dominioni).

Emblematica della situazione attuale è la mixture operata da Steven Ehrlich, architetto newyorkese che cita, senza paura di contraddirsi, da tradizioni lontanissime come quella dei mosaici dei murales messicani nel paramento in mattoni (sia all’esterno che all’interno) dello Shatto recreation center (1987-1990) a Los Angeles o delle losanghe del palazzo ducale veneziano nel muro esterno del Sony Child Center (1992-1995) a Culver City.

Adolf Loos, Villa Karma, ingresso

1906 | Adolf Loos, Villa Karma, ingresso

Difficile dire, naturalmente, quale potrà essere in futuro un possibile punto d’incontro (o di scontro, forse ancor più “produttivo”) tra mosaico e architettura. Forse, ripensando al mosaico, si potrebbe leggerne il suo carattere di “simbolo”: al tempo stesso emblema di frammentarietà, discontinuità, distinzione, ma anche di solidità e di retorica della durata. Da un lato, perciò, in sintonia col “pensiero debole”, con la “multietnicità”, con la complessità franta del nostro tempo; dall’altro in apparente contrasto con un mondo sempre più virtuale, leggero, trasparente.

Carlo Scarpa, Tomba Brion, ingresso

1978 | Carlo Scarpa, Tomba Brion, ingresso
Tessere di mosaico, rosa a sinistra e azzurre a destra, contornano l’apertura formata da due grandi cerchi intrecciati, motivo simbolico di unione erotica dell’elemento maschile e femminile, che Scarpa ha collocato sulla parete di fondo del tunnel d’ingresso –i “propilei”– che conduce a sinistra alle tombe e a destra al padiglione. All’esterno i due cerchi riportano i colori azzurro e rosa, in modo che guardandoli frontalmente i due anelli contengono in sé entrambi i colori, a sottolineare la perfetta fusione di maschile e femminile nell’unione coniugale. 

Forse, ma è soltanto un suggerimento che non pretende in alcun modo d’indicare strade, il ruolo del mosaico può essere quello di segnare tracce, limiti, operando in modo assai più minimale rispetto al passato.
È forse quello che ha voluto dirci Carlo Scarpa, il grande maestro del trattamento chiaroscurale del cemento armato, in apparenza un materiale sordo, che Scarpa è riuscito a far “vibrare” grazie alla sua esperienza della luce e dei riflessi acquatici della sua Venezia 20. Anche utilizzando il mosaico.
Ma il mosaico, per Scarpa, non è per nulla qualcosa di casuale, di gratuito: il mosaico è un modo di comporre “discreto”, discontinuo; nel mosaico il solco è altrettanto importante della tessera, e il comporre per discontinuità, frammenti e giustapposizioni è una delle cifre fondamentali della sua architettura.

Carlo Scarpa, Pavimento del negozio Olivetti a Venezia

1958 | Carlo Scarpa, Pavimento del negozio Olivetti a Venezia

Scarpa ha utilizzato con molta parsimonia questa tecnica, ma con una costanza inevitabilmente significativa: come “cielo dorato” (un ricordo del mausoleo di Galla Placidia?) –a tessere gialle, verdi e oltremarino su un fondo d’oro bianco– a protezione delle due tombe dei coniugi, disposte a loro volta su «un ricco tappeto di tessere a scacchi bianchi e neri» 21, nell’intradosso dell’arcosolio 22 della tomba Brion a San Vito d’Altivole; come rivestimento parietale –il mosaico è di Mario De Luigi– nell’allestimento della mostra Il senso del colore e il dominio delle acque per Italia ’61 a Torino e nel sacello del museo di Castelvecchio (1956 e sgg.); come disegno pavimentale nell’ingresso della Fondazione Querini Stampalia (1961-1963) 23, nella chiesa del Torresino a Padova (1978), nel negozio Gavina a Bologna (1961-1963) e nel negozio Olivetti in piazza San Marco (1957-1958) in cui le «tessere di vetro di Murano, sistemate in quattro diversi colori in altrettante parti del negozio, sono collocate su un fondo chiaro secondo allineamenti precisi ma con volute irregolarità, seguendo schemi pittorici di Paul Klee 24 ed in modo da simulare un effetto di mobilità come se la superficie fosse sempre sotto l’effetto dell’‘acqua alta’» 25; come mosaico che “galleggia” sull’acqua, nel monumento alla Partigiana (1968) 26; come decorazione nelle ciotole e cornici a vetro-mosaico disegnate per Venini; come “margine”, linea di confine nel giardino della Querini Stampalia, nella facciata che dà sul giardino di Casa Zentner a Zurigo (1964 e sgg.), nel camino del berceau di villa Palazzotto a Monselice (1974-1975), nel “fregio” del coronamento della facciata della Banca Popolare di Verona (1973 e sgg.); e, soprattutto, nella tomba Brion lungo il muro del perimetro esterno 27.

Qui la linea delle tessere quadrate bianche, oro, argento e giallo –definita significativamente da Gigi Scarpa un «fregio “bizantino-kleeiano”» 28– ha la funzione di «determinare il muro stesso, di stabilire la sua altezza, la sua proporzione e, nel caso del cimitero, anche di ricondurre su una superficie più alta l’altezza del muro inclinato di recinzione che, coincidendo con l’altezza media dell’occhio umano, indica la linea d’orizzonte» 29.

Guido Guidi, Tomba Brion

Guido Guidi, Tomba Brion di Carlo Scarpa

Scarpa, sul muro in cemento che circonda la sua cittadella della morte, apparentemente chiuso all’esterno e insuperabile, ha disegnato una sottile linea dorata dell’orizzonte, che sembra indicare una possibile via d’uscita dal mondo, una fessura luminosa. Una linea che segnala fors’anche un possibile futuro per il mosaico e per l’architettura.

«Mitica età dell’oro» 30, senza retorica, solo baluginante all’orizzonte.

Alberto Giorgio Cassani 

 


Note

1. Cfr. Leon Battista Alberti, Profugiorum ab ærumna, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson, vol. II, Rime e trattati morali, Bari, Laterza, 1966, pp. 160-161.

2. Alberti «pensa ad Andronicus Cyrrestes, costruttore di un famoso orologio ad Atene» dal passo di Vitruvio, De architectura, I, 25, scambiando Andronicus con Chersifrone, l’effettivo costruttore del tempio D di Artemide ad Efeso.

3. L.B. Alberti, Profugiorum ab ærumna, cit., pp. 160-161.

4. Su ciò mi permetto di rinviare ai miei lavori: La “maschera” e la “pelliccia”. Una lettura del Tempio Malatestiano, in «Polis», IV, n° 15, 1999, pp. 19-21 e «Per foramina obductæ personæ»: Una fonte inedita per la facciata del tempio Malatestiano, in «Albertiana», V, 2002, pp. 61-76.

5. L.B. Alberti, De re ædificatoria, l. IX, 5, ed. it. L’architettura, Milano, Il Polifilo, 1966, vol. II, p. 814 («[…] munus et paratio partes, quæ alioquin inter se natura distinctæ sunt, perfecta quidam ratione constituere, ita ut mutuo ad speciem correspondeant», ibid., p. 815, corsivo mio).

6. Daniel Libeskind, Tra metodo, idea e desiderio, in «Domus», LXIV, n° 731, ottobre 1991, p. 17.

7. Paolo Portoghesi, Mosaico e architettura, in Convegno sull’arte del mosaico moderno, Ravenna, 7-8 giugno 1959, Faenza, F.lli Lega, 1959, p. 31.

8. Peter Fischer, Rinascita del mosaico come arte autonoma, in G. Bovini, G. C. Argan, P. Portoghesi, P. Fischer, Mosaici d’artisti contemporanei, Ravenna, Longo, 1986, p. 26.

9. Giulio Carlo Argan, in Mosaico d’amicizia fra i popoli: Esposizione permanente di mosaici di artisti contemporanei, Ravenna, Longo, 1988, p. 11.

10. Mario Manieri Elia, ibid., p. 18.

11. Come suona la famosissima battuta attribuita a Domenico Ghirlandaio da Giorgio Vasari nelle sue Vite (edizione 1550): «Usava dire Domenico la pittura essere il disegno, e la vera pittura per la eternità essere il musaico». Sul tema Vasari ritorna più volte: «e certo è che ’l musaico è la più durabile pittura che sia. Imperò che l’altra col tempo si spegne, e questa nello stare fatto di continuo s’accende, et inoltre la pittura manca e si consuma per se medesima, ove il musaico, per la sua lunghissima vita, si può quasi chiamare eterno»; «Veramente che di tutte le cose perpetue che si fanno con colori, nessuna più resta alle percosse de’ venti e delle acque che ’l musaico».

12. Cfr. Plinio, Naturalis Historia, l. XXXVI, 189.

13. P. Portoghesi, Mosaico e architettura, cit., pp. 33-34.

14. Come dimostrano i tentativi di Friedensreich Hundertwasser a Vienna e altrove.

15. Su cui cfr. il mio Garavicchio, il giardino dei Tarocchi (1979-1991), in «‘ANANKE», II, n° 5, marzo 1994, pp. 50-59.

16. Affermazione citata in J. P. Martinon, Les espaces corrigés, in «Lotus International», XIX, n° 31, 1981/II, p. 116.

17. Prototipi di tanti anonimi imitatori fai-da-te di case rivestite di sassi, conchiglie e mosaici (in particolare nel nostrano kitsch rivierasco). Su Isidore si veda la bellissima biografia di Edgardo Franzosini, Raymond Isidore e la sua cattedrale, Milano, Adelphi, 1995.

18. Paul Scheerbart, Glasarchitektur, Berlin, Der Sturm, 1914, trad. it. di M. Fabbri, Architettura di vetro, Milano, Adelphi, 1982, p. 50.

19. Maurice Culot, Printemps de la mosaïque, in Musive, a cura di E. Gonzo e A. Vicari, Ravenna, Essegi, 1992, p. 13.

20. «A me piace molto l’acqua, forse perché sono veneziano», ha affermato Scarpa in una conferenza tenuta a Madrid nell’estate del 1978. Cfr. Mille cipressi, in Carlo Scarpa: Opera completa, a cura di F. Dal Co e G. Mazzariol, Milano, Electa, 1984, p. 286.

21. Guido Pietropoli, Viaggio nell’altra città: Un percorso all’interno della tomba Brion, in Carlo Scarpa: Mostre e musei 1944/1976, Case e paesaggi 1972/1978, cat. a cura di G. Beltramini, K. W. Forster, P. Marini, Milano, Electa, 2000, p. 368.

22. A questo proposito, lo stesso Scarpa in una conferenza tenuta all’Akademie der bildende Künste tenutasi a Vienna il 18 ottobre 1976: «ponte in cemento armato, arco in cemento armato sarebbe rimasto un ponte: per non avere questa sensazione di ponte bisognava decorarlo, dipingerne la volta. Invece ho messo il mosaico, che è nella tradizione veneta, interpretata a mio modo, che è un modo diverso».

23. Albertiani «ludi matematici», li definisce K. W. Forster in Mappe d’invenzione: edifici e allestimenti di Carlo Scarpa, in Carlo Scarpa: Mostre e musei 1944/1976, Case e paesaggi 1972/1978, cit., p. 12.

Secondo Forster qui Scarpa –ma allo stesso modo nel sacello al museo di Castelvecchio– vuole rappresentare «in forma di abaco» fissandole in una sorta di tabelle, le infinite mutazioni del caso, citando esplicitamente Mallarmé e il suo Un coup de Dés jamais n’abolira le Hasard: «sia alla Querini Stampalia sia a Castelvecchio, le superfici si compongono di quadretti di marmo, nei quali un quarto della superficie è intarsiato in una pietra diversa. Il campionario della composizione risulta paradossale: i grandi quadri a forma di “L” e i quadretti intarsiati si compongono irregolarmente, ma sistematicamente, creando un effetto di alta regolarità che comunque si origina dall’accumulo di elementi in continua e imprevedibile variazione».

Le tessere del mosaico si prestano dunque perfettamente alla rappresentazione dell’“ordinato disordine” delle leggi della casualità. Da precise suggestioni mondrianiane –ricavate da Scarpa in occasione dell’allestimento della mostra del 1956 alla galleria nazionale d’arte moderna di Roma– deriverebbe invece la scacchiera marmorea del sacello di Castelvecchio per Marisa Dalai Emiliani, che identifica con precisione come fonti due delle tele esposte in quell’occasione: la Scacchiera a colori chiari e la Scacchiera a colori scuri, dipinte da Mondrian nel 1919.

«Avrebbe mai preso forma l’idea preziosa dell’intarsio di marmi policromi che riveste, nel prospetto della Galleria di Castelvecchio, il corpo cubico del sacello, senza questa provocazione ottica» mondrianiana? E, a conferma, «il ben noto vibrante disegno 00151, conservato nell’archivio di Castelvecchio» restituirebbe «attraverso il suo repertorio sensibilissimo di segni-textures il semplice programma geometrico sotteso alla irregolare regolarità della scacchiera» mondrianiana e scarpiana; Il progetto di allestimento tra effimero e durata: una traccia per le fonti visive di Carlo Scarpa, in ibid., p. 49.

Quel che conta, per noi, è che Scarpa sia stato colpito e ispirato per il suo progetto da una rielaborazione pittorica della “struttura” del mosaico di uno dei maestri dell’astrattismo del Novecento. Inoltre Marisa Dalai Emiliani ritrova influssi della poetica di De Stijl nel mosaico a cubetti marmorei policromi dell’atrio della fondazione Querini Stampalia, motivo che risalirebbe al pavimento disegnato da Theo van Doesburg per l’atrio e per i corridoi del primo piano della casa di vacanze “de Vonk” a Noordwijkerhoud progettata da Jacobus Johannes Pieter Oud del 1917.

Un’applicazione a vasta scala e assolutamente priva delle nuances scarpiane del motivo a tessere quadrate multicromatiche si trova nel mezzanino della stazione Hollywood/Western a Los Angeles progettata da May Sun (cfr. «Casabella», LXIV, n° 683, novembre 2000).

24. In particolare il periodo kleeiano del puntinismo –assai probabilmente condizionato dal viaggio a Ravenna del 1926– iniziato nel 1930 con le composizioni pointillistes eseguite a Düsseldorf. Non posso dimostrare che il dipinto Le croci e le colonne del 1931, conservato nella galleria d’arte moderna di Monaco di Baviera fosse conosciuto da Scarpa, come Der Schritt, del 1932 e Geöffnet del 1933 entrambi esposti alla Biennale, ma è certo che la somiglianza con il pavimento del negozio Olivetti è sorprendente (assai simili sono anche altre possibili fonti del periodo “divisionista” di Klee, in particolare Gradus ad Parnassum del 1932).

Scarpa ha “incontrato” Klee rimanendone profondamente colpito in occasione dell’allestimento da lui fatto nella piccola sala XXXVII alla XXIV Biennale di Venezia nel 1948, la prima del dopoguerra.

Sugli influssi di Klee su Scarpa, si veda Manfredo Tafuri, Il frammento, la “figura”, il gioco: Carlo Scarpa e la cultura architettonica italiana, in Carlo Scarpa: Opera completa, cit., p. 89.

25. Bianca Albertini, Sandro Bagnoli, Scarpa: L’architettura nel dettaglio, Milano, Jaca Book, 1988, p. 229.

26. Forster legge i blocchi di cui è composto il monumento come «in uno stato di disgregazione, come le molecole di un cristallo che stia per sciogliersi nell’acqua», K. W. Forster, Mappe d’invenzione: edifici e allestimenti di Carlo Scarpa, cit., p. 14.

27. Cfr. G. Pietropoli, Viaggio nell’altra città…, cit., pp. 366 e 370.

28. Gigi Scarpa, Le pitture, in Carlo Scarpa: Opera completa, cit., p. 150. L’autore riferisce questo fregio anche al motivo della Banca Popolare di Verona, “confine” esso stesso tra parete e cielo.

29. B. Albertini, S. Bagnoli, Scarpa: L’architettura nel dettaglio, cit., p. 226.

30. «Saper coniugare povertà e nudità della materia con le minime tracce scintillanti di una mitica età dell’oro –l’età delle tessere musive, dell’ornamento lussuoso e raffinato della Secessione viennese– è stata la […] cifra originale» di Scarpa secondo M. Dalai Emiliani, Il progetto di allestimento…, cit., p. 50.