M a u r i z i o  N i c o s i a

 

Definizione di obiettivo

Con obiettivo non intendo uno scopo qualsiasi ma il rapporto tra l’«obiectum», ovvero il fenomeno che la disciplina storico artistica si propone d’indagare, e il soggetto che lo esamina. ‘Obiettare’ e ‘obiezione’ indicano in origine il ‘mettere davanti’ con una certa decisione: con obiettivo intendo il ‘mettere davanti’ agli osservatori gli oggetti, l’attivarsi di un’interazione tra oggetto e soggetto. L’obiettivo persegue dunque un duplice scopo, uno particolare e uno più generale:

  1. sottoporre all’esame dell’esperienza un certo oggetto.
  2. sottoporre all’esame dell’esperienza l’esperienza stessa.

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Formulazione di giudizi estetici

Il procedimento euristico (dal greco heurískein, ‘trovare’) si palesa nelle discipline storico artistiche mediante operazioni linguistiche. Ciò significa che l’efficacia dell’esperienza si misura sulla competenza acquisita nel campo linguistico.
Se compito del procedimento euristico è favorire la scoperta di nuovi risultati, non può fondarsi su giudizi di gusto (bello, buono) i quali non designando nulla dell’oggetto, non possono contribuire alla sua conoscenza.
Giudizio estetico non è quindi utilizzato nel senso kantiano di sinonimo di giudizio di gusto, ma come formulazione linguistica dei dati percettivi e, di conseguenza, dell’interazione fra soggetto e oggetto.
Una tale distinzione offre un primo criterio di valutazione del procedimento euristico; l’esclusivo ricorso a giudizi di gusto indica una carente o nulla attivazione dell’interazione.
Il giudizio estetico rappresenta perciò lo stadio terminale dell’interazione, un feedback che permette di valutare il processo interattivo. Il raggiungimento dell’obiettivo necessita dunque dello sviluppo linguistico atto a formulare giudizi estetici. E la lingua si forma cimentandosi sui fenomeni.
Il giudizio è facoltà di distinguere e d’accomunare concetti rappresentazioni e oggetti (diáiresis e synagoghé). Questi due basilari atti conoscitivi dipendono da confronti e paragoni. Per formulare un giudizio su un fenomeno sono necessarie:

  1. L’osservazione

  2. La comparazione

  3. L’interpretazione

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L’osservazione e la comparazione

Osservazione e comparazione costituiscono tappe preliminari alla formulazione del giudizio: esso è, in primo luogo, una risposta. In queste fasi, invece, ci si domanda come «interrogare il fenomeno». La sospensione del giudizio consente inoltre d’evitare interferenze come frettolosi giudizi di gusto nonché opinioni e giudizi non derivati dall’esperienza diretta del fenomeno posto sul campo.
L’osservare differisce dal guardare per quantità e qualità d’attenzione. La radice da cui deriva (ob serbare, ‘serbare verso’) indica la peculiarità dell’atto che consiste nel ‘conservare’ il veduto: nell’osservazione è attiva la memoria visiva, mentre nel guardare è assente.
Con memoria visiva indico la costanza della transazione, nel processo percettivo, dall’«oggetto empirico» all’«oggetto categoriale». Se l’oggetto empirico è «quest’oggetto che ho davanti a me», cioè un insieme di proprietà cui corrisponde un coacervo caotico di dati sensori, l’oggetto categoriale è la sua traduzione in categorie sensorie che “stanno per” l’oggetto.
L’osservazione, attivando la memoria visiva, consente dunque la comprensione del fenomeno. Essa persegue i seguenti scopi:

  • avviare l’educazione al vedere;
  • ricondurre la facoltà di distinguere e accomunare all’esperienza diretta;
  • attivare l’interpretazione fra oggetto e soggetto attraverso il circuito delle domande;
  • analizzare:
    • i dati materiali dell’oggetto empirico
    • i dati sensori dell’oggetto categoriale
    • le configurazioni che presiedono l’attività percettiva

La comparazione estende il campo fenomenico circoscritto dall’osservazione. Nel territorio artistico può riguardare la lavorazione dei materiali o delle forme, il rapporto tra le tecniche e le forme o fra queste e i significati che veicolano il carattere epocale che cade sotto la nozione di stile e così via.
L’aumento della serie consente inoltre la verifica delle risultanze d’osservazione, l’esercizio sistematico della disgiunzione e della congiunzione, l’introduzione del concetto e del significato della storicità (che include il contesto storico ma ha connotazione più ampia).

L’interpretazione

La voce ‘interprete’ designava in antico il sensale, il mediatore, per una fusione, credo, di inter partes. Oggi indica chi intende e traduce il senso d’un messaggio. Il mediatore non si colloca solo “inter partes”, ma le accosta muovendole a un’intesa, a un accordo.
Nel linguaggio filosofico mediazione significa mettere in relazione due termini. L’interprete, come mediatore, è anche messaggero: raggiunge un accordo, una relazione tra le parti per mezzo dei messaggi: media con il linguaggio, il medium per eccellenza. L’interprete è colui che «traduce», che «trasportando» i messaggi delle parti, le accosta. Nel metodo adottato, l’interpretazione ha lo scopo di sviluppare su un territorio comune la relazione tra soggetto e oggetto.
L’atto della mediazione può avvenire solo e in quanto si comprende. L’interprete, per condurre a un’intesa le parti, deve a sua volta intendere, deve «comprenderle», cioè «racchiuderle» nella medesima sfera: ogni comprensione è sempre più che la semplice riproduzione in sé d’una opinione altrui.
Si comprende allorché l’oggetto entra nell’orizzonte del soggetto e viceversa. Il processo di accostamento e di comprensione conduce a un’integrazione dei due termini. Questo è lo scopo dell’esperienza ermeneutica. Calco greco di ‘interpretazione’, derivato da Hermés, messaggero degli dei, dopo un ruolo marginale nell’ambito della filosofia, l’ermeneutica occupa un posto centrale da quando la disciplina ha rivolto i riflettori sul linguaggio.
L’interpretazione è quel processo che avvia l’«apertura» (inter patere) dell’orizzonte del soggetto sull’orizzonte dell’oggetto e con spostamenti progressivi, di cui vettore è il linguaggio, attua una «comprensione» dei due orizzonti.
«Carattere aperto dell’interpretazione è il fatto che l’integrazione a cui essa mira non è una messa a disposizione dell’oggetto, ma una “fusione di orizzonti”. Ciò che l’interpretazione ermeneutica realizza non è la conoscenza esaustiva di un oggetto, ma una sintonia tra l’interprete e un “appello” che egli deve mettersi in grado di ricevere e ascoltare. L’ermeneutica mira a costituire un linguaggio comune tra l’interprete e… l’evento passato, che ci perviene anch’esso come messaggio linguistico». (G. Vattimo, introduzione a H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano 1987, p. XXXII).

Ciò che è oggetto di comprensione, ricorda Gadamer nel saggio citato, è sempre linguaggio. La formazione del concetto della cosa, la ricerca della parola giusta per una certa esperienza –è l’essenza del pensiero del filosofo tedesco– non sono sforzi di registrare esperienze, per fissarle o comunicarle, ma costituiscono l’esperienza stessa. L’ermeneutica è il modo stesso di rivelarsi dell’esperienza e l’esperienza è il fondamento dell’essere. Ma l’esperienza fenomenica si dà solo come linguaggio.
Il trivium medievale –grammatica, retorica, dialettica– costituisce lo strumento delle operazioni ermeneutiche. Ma alla dialettica spetta il primato, poiché ogni esperienza presuppone la domanda. Senza porre domande non si fanno esperienze. E porre una domanda significa darle una posizione e un senso, cioè una direzione nella quale la risposta può essere trovata. «La domanda agisce sul suo oggetto dislocandolo in una determinata prospettiva» (H. G. Gadamer, op. cit., p. 419).
Nel capitolo che stabilisce il primato ermeneutico della domanda, il filosofo tedesco allievo di Heidegger, riesaminando il modello della dialettica socratico platonica sottolinea come secondo Platone il domandare sia più difficile del rispondere, poiché il domandare non nasconde il pericolo d’incontrare una domanda a cui non si sa rispondere, e come dialettica, quale arte del condurre un dialogo, sia anche l’arte «di guardare insieme nell’unità di una certa prospettiva, cioè l’arte di costruire i concetti elaborando insieme ciò che gli interlocutori pensano della cosa in questione» (ibid., p. 425).
Condurre un dialogo in questo senso non significa ribattere opinioni, ma mettersi sotto la guida dell’argomento che gl’interlocutori hanno di mira, tenendo fermo il «senso» della domanda. Però un metodo che insegni a domandare, ricorda Gadamer, insegni a vedere ciò che è problematico, ciò che va domandato, a posizionare correttamente la catena delle domande, non esiste.
Il processo di differenziazione della psiche dell’individuo principia con l’interazione fra oggetto e soggetto, la quale svolge tra l’altro la funzione di disinnescare il circuito delle opinioni e l’identità inconscia che il soggetto proietta sull’oggetto.
L’arte in questo contesto permette l’attuarsi d’un’esperienza che modificando realmente chi la compie, apre una prospettiva relazionale. E la storia dell’arte, con l’operazione ermeneutica, attua la «comprensione» degli orizzonti del soggetto e dell’oggetto. Il soggetto, mediante la «comprensione», diviene parte consapevole d’un’orizzonte, ben più ampio del suo io, che lo include e può essere denominato il «comprensorio del linguaggio».