Qualche appunto sul rapporto tra arte e tecnica

Maurizio Nicosia

È ormai banale ripetere che il mondo odierno soggiace alla signoria della tecnica, dominio indiscutibile di cui si discute tuttavia da almeno un secolo. Banale, ma necessario. La tecnica fa capolino nella nicciana volontà di potenza, di cui non è altro che strumento operativo, e diviene centrale con le “battaglie dei materiali”, come le definì Jünger, che hanno stravolto lo scenario europeo e mondiale di questo secolo e milioni di uomini.

La stessa rivolta contro la tecnica ne rivela il dominio incontrastato. Già due secoli fa la rivolta contro la macchina si attuava col ricorso alla tecnica stessa: è scomparso tra i flutti della storia il gesto di Ned Ludd, che prese a martellate un telaio, avviando così il sabotaggio operaio della macchina, il “luddismo”. L’apparente semplicità del martello nasconde ai nostri occhi la complessità tecnica di cui è frutto. Non a caso, sebbene la metallurgia dati da millenni, nel mito resta sempre fenomeno inquietante e ‘diabolico’. Ancor più vistoso il fenomeno odierno. Gli hacker, che puntano a bloccare il flusso telematico d’informazioni, utilizzano tecniche estremamente complesse e raffinate. Il vero oggetto del loro sabotaggio non è la tecnica, che viceversa ne appare esaltata, ma il sistema che ne fa uso. Come allora, tuttavia, il vero volto della tecnica resta celato, si tratti del martello o del processore.

La rivolta contro la tecnica non ha ridotto d’un passo la sua incessante e tumultuosa avanzata, anzi ha finito per contribuire a ulteriori accelerazioni. Come il telaio è divenuto indifferente alle martellate, generando leghe sempre più resistenti e leggere, così la tecnica odierna ha sviluppato sistemi di protezione che divengono parte integrante della sua evoluzione, e ulteriore oggetto di promozione e consumo. Chi pertanto si ponga come obiettivo l’arresto o il solo “denudamento” della tecnica rischia la fine del salmone, che va sì contro corrente, ma a prezzo della vita, e senza minimamente modificarne il corso. La tecnica è oggi il volto e al contempo il destino dell’Occidente, ed è divenuta decisiva nel rimodellarne lo stesso profilo sociale, culturale e politico.

L’Europa, impegnata non da oggi su questioni di territorio e scambio, rischia di divenire esclusivamente mercato d’una tecnica saldamente in mano agli Stati Uniti, che subappaltano la produzione d’uso corrente all’Oriente. È come se l’Europa nel Settecento avesse importato le macchine, invece d’inventarle e produrle. Malgrado cià le case europee produttrici di hardware e software si spengono una dopo l’altra nell’indifferenza generale. La Finis Europae di cui si parla da almeno un secolo avrà come sigillo ultimo un chip.

Nello sconsolante panorama europeo l’Italia rischia di restare l’ultima ruota del carro. Paesi come Portogallo e Spagna si apprestano a seguire le orme dell’Irlanda, che grazie a politiche di robusta deregulation sta accogliendo titanici investimenti produttivi con un innalzamento vertiginoso del prodotto nazionale lordo. Ulteriore aggravante è la politica culturale, scientifica e formativa italiana, tesa e ancor malamente agl’interventi rapsodici e clientelari, a investimenti ridicoli e umilianti sulla ricerca. La stessa tutela e conservazione museale, che pure ha compiuto qualche passo nel nostro paese, catalizza pressoché tutte le risorse. La produzione e sperimentazione artistiche annaspano nella totale mancanza di fondi, nella speranza nemmeno troppo celata che si estinguano lentamente. Questo è lo scenario per il prossimo trentennio, e il sottovalutarlo non costituirà che un ulteriore contributo all’estinzione delle istituzioni formative artistiche o, a essere ottimisti, alla loro radicale emarginazione.

La signoria della tecnica si è naturalmente dilatata sino alla sfera delle arti plastiche e visive. Ha profondamente eroso il cardine dei valori estetici su cui ancora si fonda il sistema dell’arte: l’unicità materiale dell’opera, con i corollari che ne derivano. Nessuno si chiede se il film che sta vedendo è l’unica pellicola esistente. La produzione seriale dell’arte è divenuta parte integrante e per certi versi costitutiva del sistema culturale. Lo stesso museo in definitiva, all’unicità dell’opera che pur dichiara di voler custodire, oppone una serie e una catalogazione senza fine. Anch’esso è arto della produzione seriale, e le mostre di questi ultimi anni lo attestano persin troppo eloquentemente.

L’arte ha risposto con atteggiamenti che oscillano tra “totem e tabù”, per usare un celebre titolo. Ricca d’affluenti è la corrente che ha elevato un feticistico culto totemico alla tecnica, dal futurismo alla videoscultura, dove di volta in volta essa diviene l’epicentro di un’entusiasta attrazione o il raggelante simulacro d’una comunicazione autistica e autoreferenziale. Ma altrettanto ricca e varia è la linea che ha rigettato la tecnica come un tabù. E sovente, per coerenza o per disperazione, ha rigettato anche le tecniche dell’arte, ridotta a mesto gorgoglìo e costretta a darsi alla macchia. L’arte di questo secolo ha sviluppato un proprio luddismo, ben più fortunato e duraturo. Tuttavia vi sono stati anche scambi fecondi. Il design rappresenta il felice pargolo del connubio d’arte e tecnica [1]: l’arte ha rinunciato all’unicità materiale dell’opera, e la tecnica al progetto [2].

L’era digitale della tecnica segna una svolta epocale. Mentre il tratto dominante dell’era meccanica è la produzione seriale d’oggetti, la rivoluzione telematica catalizza le nuove risorse tecniche sulla produzione d’informazione, che sta già trasformando la stessa produzione seriale d’oggetti e soprattutto la distribuzione [3]. L’era digitale comporta la fine della recinzione del territorio, che ha distinto la nostra civiltà dal neolitico sino al muro di Berlino, e mette in crisi il supporto primo della recinzione del territorio: la scrittura. Cià significa in altre parole che l’informazione acquista un valore eminentemente visuale, e non chirografico, diviene immagine, e che ha portata potenzialmente planetaria.

La rivoluzione digitale accelera esponenzialmente il crollo del valore estetico fondato sull’unicità materiale dell’opera, sottolineando perà, per paradosso, l’importanza e la rarità dell’opera unica vera e propria. Sempre più l’opera perde il valore d’oggetto, la sua fisicità, per aumentare il suo valore d’immagine. Non a caso il Novecento artistico puà essere guardato, nel suo crinale principale, come una perpetua messa in prova della stabilità dell’oggetto.

Questo è il primo aspetto dello “sguardo di Giano” proprio dell’era digitale, vòlto simultaneamente in direzioni opposte: l’oggetto, minato nella sua funzione d’uso, ormai secondaria rispetto a quella di protesi sociale e psichica, di durata effimera per esigenze di consumo, cessa di esistere senza la sua immagine, esce dal circuito d’uso. Dall’altra l’informazione visuale dell’oggetto, o l’immagine che dir si voglia, oggi vero veicolo dei valori conferiti all’oggetto, è a sua volta nulla senza l’oggetto. Si è creato un rapporto di profonda simbiosi tra l’oggetto e l’immagine, che da un lato esalta la reciproca autonomia, e dall’altro li vincola sempre più l’uno all’altro. Sotto la prepotente accelerazione della rivoluzione digitale sia l’oggetto, sia l’immagine perdono lo statuto di cosa e divengono comunicazione.

Questo è l’altro aspetto dello sguardo di Giano: il trionfo del digitale, cioè di un apparato logico, porta con sé una ridefinizione analogica dell’oggetto, da tempo immemorabile territorio proprio dell’arte. Il terzo aspetto dello sguardo di Giano, caratteristico della rivoluzione digitale e della comunicazione telematica, è che la rete (internet e ciò che la seguirà via satellite) diviene museo globale dell’era precedente. L’epicentro dell’immediato futuro, e del prossimo, è dunque sulla comunicazione visuale. Sull’uso della comunicazione digitale, quindi, si gioca lo stesso futuro delle accademie di belle arti.


  1. Da qualche tempo tuttavia il design inclina ai capricci della moda e dunque a un restyling dell’oggetto, nel quale la funzione d’uso è subordinata a quella simbolica. L’oggetto è sempre più protesi tecnologica della vacillante personalità dell’uomo-massa, e il design svolge oggi la funzione di profilare nuovamente l’oggetto sulle aspettative e i desideri del ‘consumatore’.
  2. Ciò ha portato a un’ulteriore articolazione delle istituzioni formative artistiche: alla nascita della facoltà d’architettura prima, agl’ISIA dopo. L’accademia è rimasta custode dei valori estetici che ruotano intorno all’unicità materiale dell’opera, con un rovesciamento curioso: in un’epoca che richiede più progettisti che ‘artisti’, le accademie hanno di fatto aperto le porte a tutti, e gl’ISIA viceversa praticano un rigoroso numero chiuso, altro inequivocabile segno della casualità che governa l’organizzazione dell’istruzione artistica.
  3. Basti un esempio su uno dei più classici veicoli d’informazione: il libro. Oggi è possibile stamparlo in copia singola, con costi di produzione ridottissimi, e costi di distribuzione irrisori. Esistono già alcune gigantesche librerie “virtuali”, prive cioè di un punto di vendita fisico, che grazie al risparmio sulla distribuzione, il magazzinaggio riescono ad abbattere i prezzi al pubblico a cifre che vanno dal 20% al 40% sul prezzo di copertina. E offrono cataloghi di un paio di milioni di volumi in diverse lingue.