Maurizio Nicosia

Io non vedo altro che un ammasso confuso di colori delimitati
da una quantità di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura.
H. de Balzac, Il capolavoro sconosciuto

L’imperio dell’arte americana del dopoguerra ha origini europee. La politica culturale di Goebbels, la croce uncinata su Varsavia convincono i principali esponenti delle avanguardie alla traversata atlantica. I funzionalisti della Bauhaus sono tra i primi ad approdare in America dopo la soppressione della scuola nel ’32. Moholy-Nagy assume la direzione del New Bauhaus di Chicago nel ’37. L’anno successivo anche Mies Van der Rohe si ferma sul lago Michigan, ponendo le basi per la scuola di Chicago. Ma a testimoniare il progetto di derivare la forma dalla funzione è lo stato maggiore al completo, ovvero Albers, Gabo, Breuer, Gropius. Con Feininger ha voce anche l’orientamento «orfico» della scuola. E la presenza di Ozenfant, come le nuove, sincopate cromie dei Broadway boogie woogie di Mondrian (a sinistra un esempio) completano il panorama dell’astrazione geometrica europea.

Vi torna anche Legér, che già aveva soggiornato negli States per dipingere un murale. Vi approda infine il nerbo della corte surrealista con Matta, Dalì, Max Ernst, Masson e Breton, forte della consolidata presenza di Duchamp. Come dire che il vigoroso dibattito sul primato della ragione o le ragioni dell’istinto, sulla gestalt governata dalla scienza architettonica o l’automatismo inconscio e la spontaneità della genesi creativa, si sposta di là d’Atlantico e determina le condizioni per lo sviluppo dell’arte americana.

LA PAUSA

Hans Hofman, Senza titolo, pastello su carta, 1942

A inaugurare la stagione migratoria degli anni ’30 il tedesco Hofmann (hanshofmann.org), nomade di rango che attraversa i punti nodali d’Europa negli anni più significativi. A Parigi tra il 1904 e il ’14, dal ’24 a Monaco, dieci anni dopo apre una scuola sull’Ottava strada di New York, dove i suoi allievi americani poterono ragguagliarsi sulle più avanzate teorie della pittura del vecchio continente. Per Hofmann cardine d’ogni configurazione è il colore, e il valore espressivo d’una superficie è determinato dalla relazione fra i toni. Quale sia l’intensità, l’altezza e il timbro, la luminosità d’un singolo colore, ovvero il suo «valore elementare», esso va valutato in rapporto al fondo e agli altri valori elementari.

Evidente il debito che la «relazione cromatica» di Hofmann intrattiene con la teoria musicale e armonica del colore e della composizione sviluppata da Kandinsky, Severini e Vantongerloo, e parallela all’«accordo» kleiano e al suo assunto: «essere pittore significa mettere il colore giusto al posto giusto». Punto linea superficie di Kandinsky viene stampato a Monaco nel ’26, quando Hofmann vi lavora e insegna. Certamente da quelle pagine trae la teoria del push and pull, affine all’interno-esterno del russo, nonché il vocabolario e la sintassi musicali per descrivere lo spazio pittorico: dunque l’enfasi del ritmo e la sua sinonimia con l’arte astratta.

Dove però l’apporto di Hofmann risulta determinante al radicarsi dell’astrazione in America e, più in generale, alle poetiche non oggettive degli anni ’40 e ’50, è nella netta distinzione tra pittura tonale, in cui il colore «è ridotto a mera funzione di bianco-nero» 1, e pittura pura, concepita invece per contrasti; ma soprattutto nella formulazione della forza creativa degli «intervalli», ovvero in quelle proposizioni, su cui fonda la sua pittura, che più si discostano dalle poetiche astratte europee.

Il colore di per sé non è, naturalmente, un mezzo creativo: a divenire tale dobbiamo costringerlo; e raggiungiamo tale scopo quando prendiamo coscienza della sua vita interiore, in cui colori affini entrano in rapporto reciproco per mezzo della forza creativa degli intervalli. 2

L’intervallo svolge per Hofmann la funzione di porre in rilievo l’aspetto plastico della configurazione cromatica, di procedere «dentro e fuori», push and pull, come soleva ripetere, di dar respiro alla tela. Ma la poetica del push and pull segna già il limine tra l’astrazione geometrica e l’action painting. Rispetto al valore principalmente posizionale dell’interno-esterno di Kandinsky, il push and pull hofmanniano rivela un chiaro sapore gestuale. Il colore va trascinato, tirato, impresso e aggredito: va «costretto» a divenire mezzo creativo. Piuttosto che il Klee magrebino che annuncia di essere posseduto dal colore, già si intravede in filigrana Pollock alle prese con l’«arena». D’altronde per Hofmann la pittura è «la capacità di sentirsi dentro le cose».

Robert Motherwell, Elegy to the Spanish republic N. 57, olio su tela, 1957-60

Spetta dunque a Hofmann l’aver sottolineato il valore della pausa, in Kandinsky dogmaticamente congelata nel punto, come cardine compositivo dell’ordito cromatico. Valore che diviene essenziale nell’evoluzione di Rothko, Newman, del Motherwell elegiaco delle opere «spagnole», di Francis e Still. La corrente purista dell’astrazione americana trova il proprio comune denominatore nella superficie neutra o irrisoriamente movimentata da un breve lampo tonale, più sovente da una dissonanza, e nell’intervallo, inteso come sospensione del tempo che rivela un altrove indicibile col consueto linguaggio formale. L’intervallo diviene sospensione metafisica del tempo, pausa protesa sino all’abisso monocromo, rarefazione estrema del ritmo sino alla soglia del silenzio.

Nel ’46 Rothko comincia a scandire la superficie per mezzo d’ampî intervalli, pur disseminandola ancora di elementi biomorfi alla Gorky. Alla fine degli anni ’40, quando le zolle cromatiche s’impregnano d’umori acquei e fluttuano entro un ristretto registro di toni, le pause segnano i sottili, cruciali trapassi liminari fra le campiture. E dal ’50 in poi tutte le sue tacite, maestose icone, sempre e ossessivamente al limite di un vibrante monocromo, si fondano su un ordito d’intervalli.

In quella sorta di maratona dell’eliminazione che conduce gli artisti a sbarazzarsi del colore, della struttura o del disegno, la pausa si leva in Rothko a paradigma di una condizione esistenziale, del vertiginoso impulso all’autoannullamento. Sigla una silente traccia nella ricerca dell’assoluto, scandisce un rituale di purificazione. Diviene catarsi dell’io nel non-io. Anche le rare dichiarazioni poetiche che conosciamo le confessa in un sussurro all’orecchio di Rosenberg: «io non esprimo me stesso nella pittura. Esprimo il mio non-io» 3. Rothko, che amava parlare di tragedia greca e shakesperiana, di miti e riti, si riduce al silenzio, come il Tamino del Flauto magico, con l’esercizio della pausa.

Analoga, ma se possibile ancor più radicale l’operazione di Newman. Le sue opere a cavallo tra il ’40 e il ’50 (per esempio Onement, Dionysius, Tundra, Vir heroicus sublimis, Here), concepite come superfici monocrome appena destate da qualche smagliatura tonale, sono interrotte quasi accidentalmente da strisce che «ogni imbianchino potrebbe fare» -dichiarava con provocatorio snobismo. Secondo Newman persino i puristi europei come Kandinsky o Mondrian, pur riducendo il loro repertorio alle sole forme geometriche, «miravano a realizzare equivalenti di alberi e orizzonti» 4.

E nel mondo veramente astratto che Newman dispiega dinanzi all’osservatore con le titaniche dimensioni d’una parete, la pausa, l’intervallo, il vuoto, costituiscono paradossalmente l’unica presenza, sì che l’attività estetica, cioè percettiva, ridotta pressoché allo zero, ad avvertire un cupo ronzio, è costretta a sollecitare l’immaginazione per evocare le ombre figurative sigillate nei titoli.

Mentre le pitture di Rothko sono per lo più semplicemente numerate, connesse da una sequenza ideale in cui i veri e proprî titoli che tautologicamente nominano i colori, fungono da intervalli, e quindi sono prive di riferimenti figurativi, le opere di Newman, benché ‘vuote’, anzi proprio per questo si pongono come sfondi reali d’un’insorgenza virtuale, d’una possibile figurazione negata ma indicata dal titolo e posta di là dall’opera, in un altrove mentale. In tal modo la pittura di Newman costituisce un rituale di «evocazione dell’ignoto», un esorcisma per indicare l’imponderabile 5.

Gl’irascibili. Ovvero i protagonisti dell’espressionismo astratto americano fotografati nel 1950 da Nina Leen

LA MAPPA

Il filone di matrice surrealista fonda anch’esso il proprio operare sull’intervallo, qualificandolo però come scansione spaziale. Gorky attende alla pratica del camouflage quando il WPA Federal Art Project gli commissiona la realizzazione di un ciclo di pannelli murali per l’aeroporto di Newark 6. Dopo avere sistematicamente frequentato lo stile di Ingres, Cézanne e in particolar modo Picasso, cercando con affanno di acquisirne il tocco e il metodo, giungendo a un’impressionante stratificazione di pigmento senza veramente intaccare la sostanza volumetrica della griglia spaziale, le complessità che il ciclo gli propone lo portano a una netta svolta operativa.

Ciò che muta nella sua opera non è il processo di camouflage 7, che anzi continuerà a distinguerlo per ancora molti anni, ma la concezione dello spazio. La superficie parietale lo induce a ridurre le forme su un unico piano, seguendo le riflessioni europee sulla pittura monumentale, dagli esiti quanto mai dissimili, ma accomunate dalla consapevolezza che la pittura non deve infrangere la planitudine della parete. Assumendole però per iperbole, le spinge alle estreme conseguenze, sino alla riduzione in mappa.

La superficie architettonica bidimensionale delle pareti dev’essere mantenuta nelle pitture murali. Come superare questo problema plastico se il soggetto dei miei dipinti era proprio lo spazio sconfinato del regno aereo dell’aviazione? Come impedire alle pareti di volarsene via o, al contrario, di restare schiacciate, come inevitabilmente sarebbe avvenuto in una pittura descrittiva?
La soluzione del problema si presentò da sola, quando riflettei sulla nuova visione che la possibilità del volo ha conferito all’occhio umano. L’isola di Manhattan con tutti i suoi grattacieli, vista da un aeroplano a ottomila metri d’altezza, diventa una carta geografica, una superficie piana bidimensionale. Questa nuova percezione semplifica le forme e i contorni degli oggetti terrestri, che perdono lo spessore, mentre rimane lo spazio tra gli oggetti. 8

La riduzione in mappa implica un duplice processo di ibridazione delle forme. Il primo, più evidente, è l’annullamento del volume. Dal primo consegue il secondo, che comporta la riduzione e la confusione degli oggetti privati delle loro peculiari proprietà. Gorky s’accorge che elevando il punto di vista gli oggetti ne risultano snaturati, mentre rimane della stessa qualità lo spazio che li circonda. Fugge i ceppi della tradizione prospettica collocando in modo iperbolico il punto di vista su cui essa si fonda. E scopre il vuoto, giacché lo spazio vuoto, non connotato, è il tratto dominante di una mappa.

Per stilare la mappa d’un territorio è necessaria la riduzione delle componenti casuali e secondarie mediante restrizioni. Si avvia un processo di selezione sineddotica, in cui si mantiene l’essenziale, e lo si codifica. Come sottolinea Gorky, intuendo che una simile operazione linguistica diviene un procedimento estetico, «tale semplificazione elimina tutti i particolari decorativi e lascia all’artista limitazioni che diventano uno stile». I passi seguenti di Gorky costituiscono già lo strumento chiave per la riduzione in mappa: «dovetti sezionare un apparecchio in tutte le parti che lo compongono», ovvero seleziona per sineddoche, quindi traduce in iperbole: «i simboli plastici dell’aviazione.. li ho usati con sproporzione terrificante».

Tra i biomorfemi fluttuanti su tenui campiture tonali la fluida linea di Gorky trascrive un itinerario, un processo di ricognizione. Nel 1939, dopo Newark, si cimenta di nuovo con i motivi aeronautici e la selezione sineddotica, essenziale per la riduzione in mappa, diviene costante del suo operare, costellando di emblemi i suoi spazî ibridi.

Impassibile alla decomposizione dei suoi ritratti, De Kooning, che in questi anni condivide con Gorky l’atelier e l’attrazione per Matta, nelle opere a metà del ’40 versa quali apparizioni fugaci membra disarticolate, sagome gelatinose e crittogrammi. «Il ricordo di un amico può essere risvegliato da un paio di guanti o da un numero di telefono, una sensazione erotica da una linea curva o da un’iniziale» 9. La selezione per sineddoche è assunta dall’olandese a principio del lavoro. Letteralmente: inizia ogni quadro scrivendo sulla tela lettere e parole che ibrida con forme organiche.

Adolph Gottlieb, Man Looking at Woman, 1949

 

La riduzione in mappa si sviluppa in seguito lungo due assi: Il primo reitera ossessivamente motivi ed emblemi sineddotici. Questo orientamento è tipico della pittura di Gottlieb, meditata sui Klee degli anni ’38-40, dove la mappa è piuttosto un viatico nel dedalo dell’inconscio. Il secondo indirizzo insiste sull’ordito linguistico che è alla base della riduzione in mappa: accantonato il referente, il segno si trasforma in scrittura e calligrafia, in ‘legenda’ d’una mappa. Tomlin si situa al confine; i suoi segni sono al contempo alfabeto di una lingua da inventare e sentieri interrotti in un territorio inesplorato.

Tobey abbraccia l’orientamento di Gorky e il suo punto di vista iperbolico. Esemplare Sopra la terra, dove lo sfavillìo notturno delle città, visto a «ottomila metri d’altezza», è ridotto a calligramma elettrico del mondo. E le White writings traducono coerentemente l’american way of life in coacervo di graffiti fosforescenti.

Tuttavia la riduzione in mappa, pur sgombrando il campo figurativo d’ogni suggestione mimetica, non può non evocare un’immagine, rinviare inevitabilmente a qualcos’altro, a un qual sia territorio. L’opera rimane dunque in un limbo, si propone ugualmente come specchio mentale del fenomeno o come tragitto virtuale in bilico sull’abisso dello sconfinato. La voluttà per la vertigine, il desiderio dell’annullamento nel vuoto, pur evocati, sono esorcizzati da un magma di linee e grumi biomorfi. Gorky, de Kooning, Tobey, Tomlin, Gottlieb, si aggrappano disperatamente alla mappa, all’estremo residuo d’immagine.

IL TERRITORIO

Qualche tempo prima di morire Pollock dichiara a un intervistatore: «Rothko e io abbiamo cambiato l’essenza della pittura». L’asserzione perentoria intimidisce l’intervistatore: «Lascia fuori de Kooning?». E Pollock replica: «È un buon pittore, ma è un pittore francese». Con «francese» intende dire che le opere dell’olandese scaturiscono da un’immagine: «lo si avverte chiaramente -prosegue Pollock- anche se lui lo ha nascosto o, almeno, ha tentato di nasconderlo» 10.

Secondo Pollock dunque il limite dell’opera di de Kooning consiste proprio nel processo di riduzione in mappa. L’immagine viene dissezionata e disgregata ma resta pur sempre un linguaggio che indica qualcos’altro. Una mappa, per quanto differente dalla rappresentazione d’un paesaggio, o d’una sua fotografia, per quanto riduca all’essenziale la quantità e la qualità d’informazioni puntando a un codice iconico, per quanto laconica, resta pur sempre, in relazione al territorio, un indice. Che oscilli dall’illusionismo -un disperato tentativo d’identità- all’ideografia -dove si costituisce come linguaggio autonomamente strutturato- l’opera resta diversa dall’oggetto che denota. Naturalmente finché la si considera una mappa.

Intorno al ’48 Pollock comincia a titolare le sue opere con la sequenza numerica. Apporrà talvolta titoli veri e proprî, presto famosi, come Pali azzurri, e subito interpretati in chiave di «ultimo naturalismo», ma la maggior parte delle opere è distinta da numeri. L’inclinazione a numerare le opere è ciò che più accomuna a prima vista Pollock e Rothko.
Mentre Newman si serve del titolo per evocare un’immagine o quanto meno un luogo, per esempio in Here, le tele di Rothko si presentano nella loro nuda tautologia: un colore è un colore e il numero che lo distingue non può evocare alcunché. Cosicché un codice assolutamente astratto è designato da un codice egualmente astratto.

Un simile contesto esclude ogni possibile riferimento a nient’altro di diverso da ciò che presenta. Mentre l’essenza storica della pittura europea è proprio nel suo porsi in riferimento a qualcosa, il suo essere, comunque, una mappa. Con Pollock i legami tra le due coste atlantiche si sciolgono. Il modo che utilizza per mutare l’essenza della pittura è semplice ma rivoluzionario: fare della superficie un territorio, senza mediazione alcuna. La tela, dalla tradizionale collocazione verticale sul cavalletto o sulla parete, viene distesa sull’impiantito affinché l’identità col territorio sia reale e non solo metaforica.

Sul pavimento mi sento più a mio agio; mi sento più vicino, più “una parte del quadro”, perché posso camminarci intorno, lavorarci dai quattro lati ed essere letteralmente dentro il quadro. 11

«Dentro il quadro»; ovvero dentro il territorio, nel luogo dove si svolge e si dipana eroicamente la volontà mitopoietica di Pollock; nel centro del suo mitologema: nel cuore dell’«arena». Rosenberg è certo il primo a cogliere con acume l’essenziale rivoluzione di Pollock. Lo stupore del critico è così vivido che traspare ancora dalle sue parole scritte, vergate dopo aver visto l’artista al lavoro: «dipingeva come se fosse penetrato nel paesaggio e ci lavorasse dentro: stendeva la tela sul pavimento e ci lavorava sopra» 12.

Jackson Pollock, The Deep, 1953

Con altrettanto acume avverte che Tobey -e, si potrebbe aggiungere, non solo lui- usa la macchia, la linea e il ghirigoro «per evocare un’immagine, non per attuare un’esperienza» 13; ovvero per tracciare una mappa, non per affermare con l’opera l’identità tra soggetto e oggetto. Ché questa è in fondo l’aspirazione d’essere «dentro il quadro»: infrangere, o tentare d’infrangere, l’alterità dell’opera rispetto all’autore, ossessivo tentativo d’incarnare il postulato di Novalis: «Io = non-io: tesi suprema di ogni scienza e arte».

E qui risiede l’incolmabile diversità dell’opera di Pollock e Rothko. L’una disperatamente tesa a identificare il mondo nell’io; l’altra, con la medesima disperazione, ad affermare il contrario, ad annullarsi nel non-io. Il grado zero della figurazione è tutt’altro che univoco.


  1. H. Hofmann, Il problema del colore nella pittura pura, in J. Claus, Teorie della pittura contemporanea, Milano 1967, Mondadori, p. 109.
  2. H. Hofmann, in CLAUS, p. 112.
  3. H. Rosemberg, La s-definizione dell’arte, Milano 1975, Feltrinelli, p. 98.
  4. Citato da H. Rosemberg, op. cit., p. 95. La precedente citazione si trova a p. 92.
  5. Sull’intervallo si accanisce anche Francis. Pittura-Rosso e nero del ’50, meditata sulle evanescenti vibrazioni tonali di Rothko, sintetizza il suo atteggiamento. Una esile, irregolare lingua nera è separata dalla fagocitante campitura rossa per una striscia gialla che, lo sottolinea anche il titolo, funge da pausa. Sia Francis che Still seguono le orme di Hofmann in direzione d’una pittura astratta basata sulla spontaneità e l’empatia, una pittura di macchie profonde e subitanee, quasi frutto d’una attività eruttiva vulcanica che scaglia sulla superficie del quadro un arcipelago di isole cromatiche.
  6. La costituzione del WPA Federal Art Project sarà decisiva non solo per la sopravvivenza degli artisti negli anni della più cupa depressione, ma anche per le sorti dell’arte americana, stimolando un’intensiva applicazione professionale nelle più anziane leve degli espressionisti astratti e per gli allora giovani Pollock, Gottlieb, Reinhardt, Rothko. Per quanto la maggior parte delle commissioni toccasse agli esponenti del realismo sociale, la neutralità della commissione del WPA permise la sperimentazione e l’incremento delle ricerche astratte.
  7. Nota Rosemberg, in L’oggetto ansioso, Milano 1967, Bompiani, p. 106, a proposito del procedimento di camouflage, che in fotografia le opere di Gorky non differiscono dagli originali; al loro cospetto invece l’autografia gorkiana è lampante proprio per la straordinaria densità di colore. Nel ’40 terrà persino corsi di camouflage e resterà noto tra gli amici per i continui e svariati personaggi che indosserà, costituendo il primo reale paradigma per lo Zelig di Woody Allen.
  8. A. Gorky, The WPA muralls at the Newark Airport, in CLAUS, pp.77-78.
  9. In H. Rosemberg, L’oggetto ansioso, Milano 1967, Bompiani, p. 123.
  10. In CLAUS, p. 151.
  11. In CLAUS, p. 148.
  12. H. Rosemberg, L’oggetto ansioso, op. cit., p. 89.
  13. Ibid., p. 43.