Maurizio Nicosia

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Nessuno giurerebbe oggi sull’oggettività della descrizione. Eppure l’Occidente s’è a lungo cullato in questa illusione, a lungo s’è alimentato di quest’inganno traendone un’altrimenti impensabile potenza operativa. Lo smantellamento di questa monumentale certezza ha impegnato un cantiere che ha raccolto il lavoro di Kant e Schopenhauer, la revisione critica ed epistemologica del positivismo e le elaborazioni ultime della fisica. Sull’orizzonte sgombro di macerie si staglia adesso un unico profilo nel quale è impossibile distinguere la descrizione dall’interpretazione e assegnare perciò patenti d’oggettività. Semmai appare chiaro come l’una s’innervi sull’altra, come l’architettura dell’interpretazione trovi saldo fondamento sulla descrizione.

Lungi dunque dal restituire la realtà “così com’è”, la descrizione mira piuttosto a impossessarsene. Il suo esercizio punta al governo della natura e del mondo: il suo eloquio distaccato logico e sequenziale trasforma il fenomeno in legge per soggiogarlo al dominio del pensiero; la totale intercambiabilità dell’osservatore, postulato cardinale della descrizione oggettiva, implica l’altrettanto totale disponibilità del fenomeno descritto, che diviene così patrimonio comune: un bene di possesso. Più che volontà di verità dunque, la descrizione manifesta volontà di potenza. Non a caso la sua fortuna e la sua diffusione corrono parallele allo sviluppo di scienza e tecnica. Di queste è oggi ancella, sebbene le abbia generate, in quanto s’è spogliata delle figure del linguaggio; nell’anelito all’oggettività e al supremo distacco, la descrizione ha rigettato metafore tropi metonimie e ogni altra colorazione semantica. La descrizione ha messo il mondo sul marmoreo tavolo del chirurgo. Prosaicamente.

Attualmente la descrizione riveste il negletto ruolo di vestale della scienza o, più esattamente, di parente povera. Ma quando ne era ancora il più brillante sinonimo, ha catturato nella propria orbita l’arte, auspice una malintesa interpretazione d’Aristotele, e ne ha fatto un proprio satellite, assegnandole l’ingrato compito d’accanirsi sulla particolare forma di descrizione costituita dall’ostensione. Una imponente mole d’opere ha tentato invano d’approssimarsi all’enunciato ‘questo è xy’, raggiungendo solo un’ostensione simulata, circoscritta invece dall’enunciato ‘questo appare come xy’. Poi in America un Francese in vena di seguire i consiglî del saggio di Balnibarbi, di estrarre da un sacco gli oggetti quando li si deve nominare, ha escogitato i ready made, salvando così il principio d’identità di Leibniz; ‘questo —esclama con ferrea logica una sua opera— è uno scolabottiglie’. L’arte ha così conquistato l’ostensione, ma si trova adesso a oscillare tra questa e l’ostentazione, tra l’ostensione dell’oggetto e l’ostentazione della scelta, ovvero di chi l’ha scelto. E corre quindi il rischio di ridursi a banale tautologia. O a una sorta di barocco linguistico: all’ostentazione dell’ostensione.

Di fronte a questo circuito chiuso, d’obbligo interrogarsi su nuove, diverse direzioni e battere altri sentieri. Per esempio la pratica dell’evocazione, con la quale l’arte ritroverebbe la propria primigenia natura. L’evocazione appare, rispetto alla descrizione e all’ostensione, incarnare un’insondabile alterità. Indica un territorio incerto, dai confini avvolti nelle brume, significativamente connesso un tempo con le arti della magia. L’impronta faustiana è oggi venuta meno, ma è ovvio che la signoria della tecnica può tollerare l’evocazione esclusivamente come licenza poetica, come suggestiva quanto breve vacanza della ragione. Il conio, di stampo latino, addita il ‘chiamar fuori’, il richiamare alla mente, ed è come richiamo che l’arte ha da usarla. Se la descrizione impone distacco all’osservatore, e fredda immobilità, l’evocazione caldeggia empatia, lo spinge al caloroso trasporto. È questo il primo richiamo: a un partecipe rapporto col mondo.

Evocare è anzitutto sottendere un impalpabile tessuto che avvolge e unisce le cose, le avvince l’una all’altra, le salda; è avvertire il palpito di questa membrana. Evocare è ‘chiamar fuori’ l’invisibile pelle del mondo, la ragnatela con cui la mente circoscrive il vuoto e si fa vasaio. Un chimico direbbe che è uno stato allotropico: come l’ozono, libera ossigeno. Ma è anche un ‘chiamarsi fuori’. Per esempio dal ghetto del circuito artistico e dalle logiche del mercato: il secondo richiamo è un invito a uscire dall’isolamento, ad abbracciare una posizione etica che restituisca all’arte la funzione umanista di modello sociale, tra l’altro, di laboratorio di trasformazione utopica delle strutture sociali. In questo senso il ruolo dell’artista non è d’esporre, ma d’esporsi, di farsi avanti ‘chiamando fuori’ gli altri individui.
Evocare è infatti anche additare ciò che manca, ciò che è assente o è venuto meno. In luogo dell’ostensione, che insiste sull’esistente, l’evocazione suscita una nostalgia attiva che esplora le contrade del possibile, e non solo del probabile. È dunque ricordo dell’assenza e circoscrizione del vuoto. Ma l’evocazione è soprattutto capacità d’ascoltare. ‘Chiamar fuori’ implica la disposizione all’ascolto dello spazio e del tempo che vi è fluito; dello spazio intriso di tempo. La descrizione rende l’oggetto disponibile; evocare significa anzitutto rendersi disponibili. A soppesare, anche, il gioco un po’ trito d’esporre nelle gallerie, i sepolcri imbiancati d’oggidì. L’evocazione non è un gioco, è un’arte.