Ricognizioni preliminari
Maurizio Nicosia
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Quest’occasione è invito a riflettere sullo stato dell’arte, da sempre tesa come l’uomo di Verlaine “tra la bestia e l’angelo”, ovvero tra la fisicità dell’oggetto, sia pure connotato d’un valore estetico, e la dimensione immaginale e concettuale, la dimensione della virtualità. È invito, soprattutto, a riflettere sullo stato dell’arte dopo l’impatto con le attuali tecnologie di comunicazione.
Dovremmo in altri termini esaminare in primo luogo cosa induca ad attribuire valori estetici a un oggetto, quindi in cosa consista la virtualità dell’arte e confrontarla infine con la simulazione elettronica di ambienti nota come realtà virtuale.
Mentre i giudizî estetici, è inutile ricordarlo, sono tutt’altro che imperituri, sono quanto mai effimeri e relativi, e costituiscono una variabile dipendente dai cardini epocali, culturali e filosofici di una civiltà l’attribuzione di valore a un oggetto, invece, è una costante antropologica, propria d’ogni epoca e latitudine, dello sviluppo della coscienza. La coscienza è anzitutto ‘coscienza di qualcosa’, si riferisce sempre a un oggetto immanente. E nel riferirsi ad esso gli attribuisce comunque un valore che funge da fondamento a qualsiasi giudizio o sentimento.
Se consideriamo la triplice natura dell’opera d’arte, cioè il suo essere dotata di materia, di forma e di significato, si può affermare che il valore estetico che le viene attribuito dipende da almeno uno dei tre principali fattori connessi alla sua triplice natura.
Il primo è l’unicità del suo stato materiale: l’opera, in quanto oggetto, è unica, e le sue riproduzioni costituiscono una serie di altri oggetti, spesso anch’essi unici.
Il secondo è la rarità della sua configurazione formale: è rarissimo, se non impossibile, che gettando dei colori su una tela appaia il Battesimo di Piero della Francesca. L’ordine è raro nell’universo, almeno ai nostri occhi profani, e l’opera, nel venire al mondo, vi immette il suo, proprio, esclusivo ordine, ordine che include anche ciò che i gestaltisti chiamavano, appunto, Gestalt.
Il terzo, connesso al significato, può essere definito come la sua “virtualità “, cioè il suo indicare qualcos’altro, il suo riferirsi a una condizione potenziale e non ancora in atto o comunque non immediatamente percepibile dai sensi. E ciò avviene sia che l’opera rappresenti qualcosa, come un paesaggio o una bottiglia, nel qual caso rinvia al paesaggio o alla bottiglia naturali, sia che presenti un triangolo o delle macchie. Il triangolo rinvierà alla geometria e all’esattezza come valore estetico, le macchie al gesto e all’azione che le hanno generate.
Le tecnologie di comunicazione hanno profondamente intaccato sia il valore estetico fondato sull’unicità dell’opera, sia la visione mimetica dell’arte che l’Occidente perseguiva da un paio di secoli. L’esplosione di colori nella pittura impressionista deve qualcosa alla fotografia in bianco e nero. Se Cézanne giunge a concepire la pittura come impianto architettonico e musicale di piani cromatici, si deve anche alla sfida -e al successo- sulla rappresentazione verosimile del mondo dei fenomeni che la fotografia lanciava ai pittori. La ‘macchina dallo sguardo fisso’ è stata certo impulso per lo sviluppo delle poetiche non figurative che hanno impegnato l’attività delle avanguardie storiche.
Più arduo dire se le tecnologie di comunicazione abbiano completamente eroso il valore dell’unicità dell’opera in quanto oggetto, se le abbiano dissolto “l’aura”. Ciò vale certamente per quei lavori costruiti su queste tecnologie. Dato per implicito che qualsiasi opera necessita d’un sostrato materiale, nessuno di noi si chiede se la pellicola che sta vedendo sia l’unica in circolazione: l’unicità , che pure riconosciamo al film, la spostiamo su ingredienti immateriali o meno densi, come il dipanarsi della trama, la modellazione psicologica dei personaggi o il montaggio e il taglio della fotografia: la spostiamo su quanto chiamiamo regìa. Con il film il valore dell’unicità dell’opera diviene virtuale. Certamente non connesso all’unicità dell’oggetto.
Che però lo stesso ragionamento non valga per le opere costruite senza le risorse delle tecnologie di comunicazione, cioè le pitture e così via, lo segnalano le attuali tendenze del pubblico, pronto ad accorrere alle mostre d’artisti di ‘cassetta’.
Malgrado sia possibile ripercorrere tutto il travagliato iter pittorico di Van Gogh comodamente seduti in poltrona e senza un filo d’angoscia, il pubblico conosce perfettamente la differenza tra mappa e territorio. Ben sa che la foto-anzi, la stampa tipografica di una foto- non è il quadro, e si piega volentieri a mettersi in fila. In questo caso l’unicità dello stato materiale dell’opera è insostituibile, e la riproduzione non è appagante. Nel mercato dell’arte non avviene diversamente: il fenomeno dei multipli, cioè d’opere d’arte riprodotte in serie più o meno limitate, è decisamente in ribasso, dopo una certa fortuna negli anni ’70.
Comunque sia la riproducibilità tecnica delle opere d’arte ha innescato un nuovo valore estetico: se prima l’opera, vista o ascoltata una volta, viveva nel ricordo, oggi vive nel surrogato. Sempre più l’opera perde il valore d’oggetto, la sua fisicità, per aumentare il suo valore d’immagine.
Il fenomeno della riproducibilità tecnica dell’opera, oltre il forte ridimensionamento del valore dell’unicità dell’oggetto, ha conseguentemente appannato il valore di rarità della configurazione formale. L’ordine che Mondrian, per fare un esempio, ha immesso nel mondo con la sua pittura, posso riconoscerlo al cinema, in TV, sulle copertine dei libri e nelle riviste e posso trovarlo, magari con sconcerto, su una confezione di saponette o un dépliant di viaggi. Posso esserne lieto o no, ma quando Mondrian approda su un tubetto di gel per capelli, ha ancora senso parlare di rarità?
Altra falla al senso di ordine come valore estetico è giunta dai modelli scientifici di descrizione del mondo, come la teoria della relatività, il principio d’indeterminazione e soprattutto il concetto d’entropia. Che i modelli scientifici si avvicendino, si escludano o si elidano è ininfluente. Comunque corrodono quel principio di stabilità che è alla base dell’ordine come valore estetico e che si riflette specularmente sull’oggetto. Soprattutto in un’epoca come la nostra dove la signoria sul sapere è detenuta proprio dalla scienza. Non a caso il Novecento artistico può essere guardato, nel suo crinale principale, come una perpetua messa in prova della stabilità dell’oggetto.
E ciò ci conduce all’esame del terzo valore estetico, la “virtualità “, concetto che richiede una maggiore messa a fuoco. Lo Zingarelli indica tre principali flessioni, filosofica, matematica e fisica. In quest’ultimo campo indica uno “spostamento possibile, immaginato ma non effettuato”. In matematica si intende un “ente che potrebbe esistere, ma che nella configurazione data manca”. Infine in filosofia è sinonimo del concetto di potenza aristotelico, e dunque di ciò che “non è in atto”. Flessioni comunque orbitanti attorno al concetto di ente possibile ma non esistente allo stato dei sensi. Inevitabile che l’uso corrente inclinasse a utilizzarlo come sinonimo di irreale e che attraverso il glossario della tecnica lo accostasse quindi al concetto di mancanza, di assenza. Gergo comune, insomma, per intendere la ‘vacanza dell’oggetto’. Gergo comune, ma curioso, in un panorama dove l’oggetto prolifera inesorabilmente, e dove è semmai da auspicarsi la nascita di una scienza ‘demografica’ che si occupi della sovrappopolazione oggettuale. È in quest’ultima accezione, di ‘vacanza dell’oggetto’, che la critica tende a usare il concetto di virtualità.
Nell’uso del termine nel campo dell’arte converrebbe distinguere con maggiore precisione. Vi sono due tipi di opere mancanti: per un’assenza temporanea o definitiva. E vi sono opere mancanti perché mai realizzate e malgrado ciò hanno mutato gl’indirizzi dell’arte.
- La visione di un Van Gogh mi può essere preclusa temporaneamente, magari perché si trova in un caveau svizzero, e quindi mi è accessibile solo attraverso le riproduzioni. In questo caso l’oggetto non è qui, ma potrebbe esserci. L’oggetto esiste in un altro spazio.
- Mentre il Discobolo di Mirone non può essere né qui, né altrove. È definitivamente perduto. L’unicità dell’opera in quanto oggetto è venuta meno, ma posso godere della rarità della configurazione grazie alle molteplici copie romane. Oppure, per fare un altro, più recente esempio, le sculture suicide di Tinguely, ordigni di cui ci resta solo la presenza fotografica. L’oggetto esiste, ma in un altro tempo.
- Vi è poi il caso di opere mai esistite, come La battaglia di Cascina di Michelangelo. Conosciamo il progetto, quel cartone letteralmente consunto a forza di copiarlo, ma l’opera non è mai esistita, e tuttavia nella storia dell’arte la sua presenza virtuale è determinante: per quanto assente ha influito sullo sviluppo dello stile. L’oggetto in questo caso esiste solo come configurazione possibile.
Credo sia appropriato definire ‘virtuale’ solo l’oggetto la cui assenza sia definitiva. Altrimenti dovrei usarlo ogni qual volta qualcuno va a prendere un caffè. E allora tutto diviene virtuale: una definizione confusa et distributiva.
Bisogna però considerare la possibilità di individuare una dimensione virtuale nell’opera anche in presenza dell’oggetto. Il fenomeno, a dire il vero, è proprio dell’arte che, a differenza della scienza, si è traguardata il campo del possibile e non del probabile. Di sfuggita segnalerò che quanto più l’opera è realista, tanto più diviene metaforica: tanto più cioè m’impone di compararla all’oggetto rappresentato, la cui presenza, quindi, viene evocata. Una presenza virtuale simile al Discobolo di Mirone.
Però, se la valutazione dell’opera d’arte non può che inquadrare l’iter attraverso cui l’intenzione si sviluppa in un processo e si sostanzia in un risultato che è l’opera, va detto che l’introduzione delle tecnologie di comunicazione e lo smisurato dispiegarsi del panorama degli oggetti hanno profondamente modificato il rapporto tra intenzione, processo e risultato. L’unicità dell’opera in quanto oggetto, cioè il risultato, è venuta meno, e proporzionalmente si sono valorizzati, spesso a dismisura, gli aspetti del processo e dell’intenzione.
Nella seconda metà del Novecento si sono affermate tendenze anche decisamente in contrasto, come l’informale e il concettuale; iconiche, come la pop art, e iconoclaste, come il minimalismo. Ma hanno tutte un tratto in comune, un tratto fondamentale: spostare l’attenzione dell’astante dall’opera all’operatore, dall’oggetto all’intenzione che lo anima. L’oggetto diviene il residuo fossile d’un’azione, d’un gesto o d’un evento nell’informale o nell’action painting, o il residuo fossile d’un iter mentale o d’un valore estetico o gnoseologico nel concettuale, nel minimalismo. O, ancora e sempre, il residuo mentale della scelta operata dall’artista nel campo degli oggetti e delle immagini.
Per fare un esempio: lo Scolabottiglie di Duchamp, nella sua nuda ed esibita presenza, sottolineando la funzione del contesto nel connotare d’artisticità l’oggetto, non diviene virtuale? Se la fisicità dell’oggetto è un pretesto per indicare condizioni e valori immateriali, allora la sua presenza è del tutto contingente, incidentale. L’opera è a tutti gli effetti virtuale. L’opera in questo caso non è l’oggetto, che malgrado la propria fisicità diviene instabile, larva di se stesso.
Paradossalmente, allorché le arti visive hanno sostituito la rappresentazione con l’oggetto d’uso comune nella sua nuda fisicità, lo hanno fatto con l’intenzionale obiettivo di eliminare la fisicità dell’opera per indicare l’immaterialità del processo artistico. L’instabilità figurale dell’oggetto nell’arte delle avanguardie storiche diviene nel secondo Novecento una instabilità gnoseologica.
Ma questa dimensione virtuale è profondamente diversa dalla realtà virtuale. Possiamo dire che si situino agli antipodi. Lo spostamento dall’opera all’operatore si inscrive nella visione schopenhaueriana del mondo come volontà. E, potremmo aggiungere, l’arte diviene così laboratorio della volontà di potenza dell’uomo. Con la realtà virtuale si direbbe che la tecnologia occidentale manifesti la volontà di potenza come volontà di rappresentazione. Non più mondo come volontà e rappresentazione, ma mondo come volontà di rappresentazione. Questa è oggi la volontà di potenza espressa dalla tecnologia.
Nell’esame sulla simulazione informatica di ambienti si sono formate due scuole: i “mistici”, e i “critici”, come li chiama Maldonado. Tra i primi si segnala in Italia Elemire Zolla, che auspica la possibilità d’esperire l’iniziazione sciamanica in realtà virtuale. Tra i secondi, lo stesso Maldonado: “le realtà virtuali -afferma- spezzano il nostro legame con il mondo delle cose e dei corpi, assottigliano sempre più la nostra possibilità di esperienza con l’universo della fisicità”. Li divide dunque la valutazione dell’impatto sulla civiltà ma li unisce il punto d’avvìo. Per entrambi la simulazione virtuale comporterebbe la dematerializzazione della realtà : perciò i primi ne parlano entusiasticamente, vedendovi la fine del materialismo occidentale; e i secondi per la stessa ragione se ne preoccupano.
Sono poco convinto che la signoria tecnologica sul mondo sia giunta a una sorta di palingenesi, a una catarsi purificatoria. Credo che la realtà virtuale vada osservata anche sotto un’altra angolazione: non come dematerializzazione della realtà, bensì come materializzazione dell’immaginario. La questione da questo punto di vista si rovescia completamente e si inscrive perfettamente nel progetto dell’uomo occidentale di proiettare all’esterno le proprie facoltà. Dopo la moltiplicazione seriale del sistema motorio nelle macchine e del sistema nervoso nella trasmissione elettronica, si giunge alla produzione seriale del fantastico e dell’immaginario.
Si giunge in altri termini a rendere corporea l’esperienza immaginale, a reificare l’immagine. È questo il motivo che mi spinge a situare agli antipodi la virtualità dell’arte e la realtà virtuale e a osservare questa tecnologia non con entusiasmo ma con inquietudine. Con la cuffia oculare, i guanti e la tuta ‘intelligenti’, possiamo entrare in una dimensione illusoria e viverla come se fosse reale. Possiamo vivere l’esperienza corporea di mondi paralleli. La realtà virtuale di fatto estende e amplifica il rapporto che la sfera dei sensi intrattiene con le cose a ciò che è immateriale. E si propone se non come governo della sfera immaginale, che non è da escludere, certamente come luogo di consumo della sfera immaginale. Il fantastico è merce troppo interessante, oggi.
La realtà virtuale quindi inverte la facoltà dell’arte e massimamente della pittura, da sempre custode della planitudine. Mentre la realtà virtuale è incorporea ma attiva un rapporto e un’esperienza corporei, la pittura è corporea e impone un rapporto corporeo e un’esperienza mentale. Nella realtà virtuale l’immagine aspira e torna a essere luogo e cosa, nella pittura vive esclusivamente come immagine. Con tutta la sua vera, potenziale virtualità. In tutta la sua virtus: come non luogo. Nella pittura l’immagine resta pura e manifesta utopia.
Da sempre la pittura è coltura d’utopia. Se con luogo si indica un ricetto abitabile dello spazio, allora, sempre, la pittura rende visibili e coltiva non luoghi. Da sempre la pittura confina nella vista, e al più in una eventuale “tattilità” visiva, la possibile esperienza d’uno spazio, d’un mondo. I suoi anditi sono sottratti agli altri sensi e alle cure del corpo. Toccare il velo o la pasta della pittura c’informa della sua materia, magari del gesto che l’ha nutrita e plasmata, ma l’essenza dei suoi non luoghi resta insondabile. Nella sua ostentata, fin troppo evidente prossimità, l’oggetto è distante, è inattingibile.
Il non luogo assoluto però, è privo d’estensione, è il punto. La pittura dunque coltiva utopia ma non la può compiere, se non col proprio annichilimento. D’altronde l’utopia è per definizione irrealizzabile. L’impossibilità di compierla, di porla in atto, l’additarne tuttavia la potenza e la forza, chiarisce il carattere virtuale degli ambiti della pittura.
Nel coltivare utopia la pittura si rivela marca di confine: estremo orizzonte del luogo, e prima avvisaglia del non luogo; tòpos e ou-tòpos al contempo. Rovesciando il glossario tecnologico la potremmo definire virtualità reale. La natura androgina della pittura abbraccia e scioglie ulteriori, conseguenti opposizioni. Manifesta una materiale immaterialità. Nel suo grembo la materia diviene linguaggio, e il linguaggio materia. Il blu di Prussia diviene mare cielo cerchio, forma e grumo; e le forme si sostanziano. E l’immagine, sottratta allo scorrere del tempo, ne è tuttavia catturata. La pittura concreta una sorta di temporale, e temporanea, atemporalità. Su questo crocicchio di metamorfosi la pittura si erge a soglia, a custodia delle immagini.
Ed è l’immagine la dimensione virtuale per eccellenza, e uno dei bisogni di quest’epoca, così povera d’immaginario, d’immagini e straripante invece di percetti. A un saggio ingiustamente poco frequentato del Sartre fenomenologo dobbiamo chiarezza sull’argomento. Percezione e immagine, ricorda il filosofo francese, sono diverse: “sia che io percepisca o che immagini questa sedia, l’oggetto della mia percezione e quello della mia immagine sono identici: si tratta sempre della sedia di paglia sulla quale sto seduto. Semplicemente, la coscienza si riferisce a questa stessa sedia in due maniere diverse”. Nella percezione l’oggetto vi appare in una serie di profili, va appreso, bisogna moltiplicarne i possibili punti di vista. Ciò comporta “la necessità di fare il giro degli oggetti”. Il cubo mostra solo tre delle sue sei facce e anche girandogli intorno e osservandolo, mi è impossibile averne una veduta complessiva. Se invece lo immagino con le sue sei facce e i suoi otto spigoli, “sono al centro della mia idea, la afferro tutta intera d’un colpo”.
Nella percezione il sapere si forma lentamente, per sedimentazione. Nell’immagine il sapere è immediato; “un’immagine non si apprende: è esattamente organizzata come gli oggetti che vengono appresi, ma, in realtà , si dà tutta intera per quel che è, fin dalla sua apparizione”. Naturalmente il divario tra percetto e immagine s’acuisce e diviene radicale se l’immagine allenta o scioglie i legami col mondo delle cose per manifestare un tritone o un triangolo o altro ancora. Da questa angolazione la nostra non è la ‘civiltà delle immagini’. Ne è invece povera, straordinariamente povera. Trabocca, semmai, di percetti. Il mundus imaginalis non vi alberga più; questa civiltà sembra aver smarrito la facoltà mitopoietica, la facoltà di forgiare immagini.
L’attuale bisogno di virtualità manifesta una volontà d’immagine: cioè volontà d’utopia. D’altronde la coscienza, che è sempre coscienza di qualcosa, sembra intensificare la sua intenzionalità, ovvero il suo essere per qualcosa, al venir meno dell’oggetto che innesca la sua attività. Quando l’oggetto svanisce, si desta, si accende nella coscienza. Basterebbe l’esempio dell’ecologia a segnalare quanto lo svanimento dell’oggetto sia fonte di coscienza. Senza il profondo distacco dalla natura, il suo profondo degrado, la nostra vita così urbanizzata, così artificiale, non vi sarebbe ecologia, non vi sarebbe coscienza della natura. Così l’immagine, ridotta a percetto, confinata tra i pallidi simulacri delle cose, e adesso con la realtà virtuale ridotta a cosa, comincia a dischiudere la sua prorompente carica utopica e liberatrice: comincia a generare una coscienza dell’immaginario.
Quindi alla volontà di rappresentazione della realtà virtuale, l’ultimo passo della reificazione tecnologica delle facoltà interiori, possiamo affiancare, come polo antitetico e complementare, la volontà d’immagine dell’arte, la virtualità reale, che alla riduzione dell’immaginario a cosa risponde con la restituzione della cosa all’immaginario.
Ci si prospettano dunque diversi livelli di virtualità nell’arte, ma la custodia della immaterialità dell’immagine e il nutrimento dell’immaginario nel rispetto e per lo sviluppo della libertà di coscienza dell’individuo, rappresentano, prima che una meta estetica, un principio etico, un caposaldo irrinunciabile. È forse tempo che l’arte smetta l’introspezione e torni ad agire nel mondo. Con la virtualità.