Tra il museo e l’informatica: i dilemmi dell’arte contemporanea che voglia alimentare l’immaginario dell’uomo
Maurizio Nicosia

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Non si direbbe che il grido di battaglia lanciato da Marinetti nel primo scorcio del secolo abbia riscosso il minimo successo. Nessun museo, che io sappia, è stato dato alle fiamme, anzi: la specie, sottratta ai rischi d’estinzione, ha prolificato copiosamente. Certo quel grido di battaglia era un fuoco fatuo, ma proprio quando Marinetti comincia a coltivare le sue aspirazioni accademiche, un distinto signore, attraversando nel 1923 le sale d’un museo francese, confessa di condividere con garbo e infinita moderazione il proclama futurista: “non amo ec­cessivamente i musei“, annota nel suo taccuino. “Ve ne sono molti ammirevoli, non ce n’è alcuno piacevole. Le idee di classificazione, di conservazione e di utilità pubblica, che sono giuste e chiare, hanno poco a che fare con il piacere“.

Il distinto signore, che non è digiuno d’arte e la nutre con amore da quarant’anni, fatica a digerire “l‘inspiegabile mescolanza di nani e giganti“, non dissimilmente da Marinetti, al quale i musei sembravano “assurdi macelli di pittori e scultori“. Il passo del distinto signore tradisce un certo impaccio: “ben presto non so più cosa sono venuto a fare in questa solitu­di­ne tirata a cera, che sa di tempio e di salotto, di cimitero e di scuola. Sono venuto per istruirmi, per cercare l’incanto, o per compiere un dovere e rispettare le convenienze?”. Con l’esprit de géométrie che lo anima il distinto signore trasforma via via la sensazione imbarazzante in ragionamento che matura progressivamente, sino a un ossessivo crescendo alla Ra­vel:

Che fatica, mi dico, che barbarie! Tutto ciò è disumano. Tutto ciò è impuro. È un parados­so accostare meraviglie singolari ma ostili e che sono inoltre tanto più nemiche quanto più si assomigliano.
Solo una civiltà non voluttuosa, né razionale può aver edificato questa casa dell’incoerenza. Un non so che di insensato emerge da questa vicinanza di visioni morte. Gelose l’una dell’altra, si contendono lo sguardo che ridà loro la vita. Richiamano da ogni parte la mia indivisibile attenzione; fanno impazzire il punto vivo che trascina tutta la macchina del corpo verso ciò che l’attira… L’orecchio non riuscirebbe ad ascoltare dieci orchestre contemporaneamente. La mente non può seguire né compiere operazioni diverse e distinte, e non esistono ragionamenti simultanei. Ma l’occhio, nell’apertura del suo angolo mobile e nel momento della percezione, si trova costretto ad accogliere un ritratto e una marina, una cucina e un trionfo, personaggi dalle condizioni e dalle dimensioni più diverse; e, per di più, deve accogliere nello stesso sguardo armonie e modi di dipingere non paragonabili tra loro.
Come il senso della vista viene violentato da quell’abuso dello spazio che è costituito da una collezione, anche l’intelligenza non è meno offesa da un’angusta raccolta di opere importanti. Più sono belle, più sono risultati eccezionali dell’ambizione umana, più si devono tener distinte. Si tratta di oggetti rari, i cui autori avrebbero desiderato fossero unici. Questo quadro, si dice a volte, uccide tutti quelli intorno… [1]

Il signore che sapientemente evita l’insorgere della ‘sindrome di Stendhal’ [2] risponde al nome di Paul Valéry. Ma mentre gli svenimenti dei turisti d’oggi non giovano granché alla riflessione sulle istituzioni museali, queste annotazioni del poeta e critico francese sono di rara preziosità. In esse il crescendo alla Ravel ruota ossessivamente intorno al fondamentale presupposto del giudizio estetico o di valore d’un’opera d’arte visiva: la sua unicità. Unicità materiale, anzitutto.

Da questa prospettiva il museo appare al penetrante sguardo di Valéry come la “casa dell’incoerenza”, ovvero il luogo del paradosso e del dilemma. Al pari del cretese che affermava come tutti i cretesi mentissero, il museo sancisce che ‘tutte le opere d’arte sono uniche’. Esso si erge a custode dell’unicità dell’opera e al contempo la nega con l’impressionante moltitudine di opere che dispone ordinatamente in fila.

Non è un caso che il paradosso sia avvertito da un poeta, avvezzo alla composizione, cioè all’unità, e istintivamente estraneo alla catalogazione, o alla serie. Matisse, maestro di composizione, ricordava come la quantità di tocchi riducesse la loro rilevanza con la sua consueta, disarmante semplicità: “se disperdo delle sensazioni di blu, di verde, di rosso su una tela bianca, man mano che aggiungo tratti di pennello ciascuno dei precedenti perde importanza” [3].

La catalogazione, che garantisce funzione e funzionamento del museo, è per sua natura inclusiva e aggregativa. Il nucleo essenziale del catalogo è la sequenza di schede, un sistema modulare tendenzialmente aperto che ripete la struttura policentrica e ripetibile delle città a scacchiera, mentre la composizione non può che costituire un sistema chiuso e autosufficiente analogo alle città medievali fortificate, costruite intorno a un unico e catalizzante centro. La logica inclusiva e aggregativa conduce all’enciclopedia, non alla poesia.

Spingendo la riflessione di Valéry sino al suo inevitabile epilogo, se ne deve concludere che la perdita d’aura dell’opera comincia ben prima dello stritolamento nei meccanismi della riproduzione di massa: comincia, immediatamente, nel museo.

Qui emerge un ulteriore, sconcertante paradosso. Ad ampliare lo sguardo sino a oggi, cioè sino all’epoca che per la prima volta nella storia crea arte per il museo e non per la vita, che si museifica in tempo reale, la “casa dell’incoerenza” ha avocato a sé il leggendario tocco di re Mida. Il processo, che è sotto gli occhi di tutti, ha trasformato il museo -e le gallerie che gli fan da ali- in casa di re Mida. Quanto entra nelle sue sale è magicamente trasformato in lucente metallo: non più pago di custodire l’unicità dell’opera, il museo ora la stabilisce, ha avocato a sé la determinazione del valore: “l‘art c’est moi“, proclama con l’orgoglio di Re Sole, noto per l’affermazione proverbiale, e non per aver prostrato il proprio paese.

Non solo “il museo è diventato un potere istituzionale che mira a fare la storia dell’arte“, avverte il critico americano Rosenberg, ma finisce per accogliere nel suo seno ogni cosa, purché diventi oro: “convinto che in democrazia non deve esservi nulla, almeno di ciò che è pubblico, che non sia accessibile a tutti, rigetta con fermezza «l’élitarismo», per quanto ciò non gli abbia impedito di continuare a santificare un vasto assortimento di eroi. Adattata all’egualitarismo culturale del museo, l’arte sembra diventata una specie di medium di massa proteiforme e multi-uso, nel quale vengono filtrate quelle tendenze intellettuali escluse dai canali efficaci, come le radiodiffusioni, i film, i circhi e i giochi di salotto. Ogni oggetto o spettacolo che non cada in un’altra categoria sarà accettato in quanto appartenente a una nuova forma d’arte” [4].

Museo casa di re Mida, dunque, dove ogni oggetto viene insignito dell’aura, si trasforma in opera d’arte; museo luogo del paradosso, dove l’aura, ovvero il principio dell’unicità dell’opera, viene soppiantato dalla catalogazione senza fine. Questo è il dilemma del secolo.

Per tentare di dipanarlo converrà partire dal bandolo della matassa: l’unicità dell’opera, e converrà distinguere la sua unicità materiale dall’unicità formale. Distinzione che ci hanno imposto i mass media: le tecnologie di comunicazione hanno profondamente eroso il valore estetico dell’unicità materiale dell’opera. Nessuno guardando un film o sfogliando un libro si domanda se la sua sia l’unica copia in circolazione.

Le stesse arti visive hanno posto in discussione il valore fondato sull’unicità materiale. Il processo di smantellamento dei valori estetici ottocenteschi, che dalla destrutturazione dello spazio prospettico ha condotto sino al grado zero della figurazione, ha coinvolto anche la fisicità dell’opera: si sono “elevati” a opere d’arte oggetti d’uso quotidiano, e quindi disponibili in serie, oppure oggetti privi di particolare unicità formale -fascine di legna e altro ancora. L’opera perde comunque il valore d’oggetto, perde letteralmente la sua fisicità. Anche quando vuole proclamare orgogliosamente la propria unicità materiale e formale, com’è avvenuto dagli anni ’80 a oggi, deve comunque piegarsi all’uso delle stampelle: alla diffusione mediale.

Così, nel panorama odierno, si direbbe che non resti altri che il museo a estremo baluardo di difesa dell’unicità materiale dell’opera. Ciò spiega anche l'”egualitarismo culturale” che denunciava Rosenberg: il museo ha bisogno spasmodico d’oggetti, pena la sua estinzione. Parimenti materiale è l’aura che attribuisce all’opera, sottraendole invece l’unicità formale col chiacchericcio o con gli strepiti dell’interminabile sequela d’oggetti che incolonna nelle sue sale.

Il museo, è necessario dirlo, appare oggi isolato e arroccato nella strenua difesa d’un valore, l’unicità materiale dell’opera, che la immateriale e inestimabile circolazione delle comunicazioni ha reso risibile. Il museo, oggi, è la chimera d’un’arte che non c’è più.

Se dunque l’arte intende riconquistare non la centralità, ché sarebbe mera utopia, ma almeno una significativa posizione nella società di massa, ha da confrontarsi con i mezzi di comunicazione di massa e il loro pubblico. E questo comporta la rinuncia all’automuseificazione, perché i valori ha da stabilirli il pubblico, non il museo; e ciò non può che essere un bene. Comporta inoltre la rinuncia all’unicità materiale dell’opera: in questo l’intento delle avanguardie merita la più approfondita attenzione, anche se ben comprendo quanto possa apparire arduo attuarlo. Ma il pubblico da conquistare non frequenta le gallerie e nemmeno i musei: va cercato in spazî preclusi alla fisicità dell’opera in cui questo valore è nullo.

Non è necessario in questo momento un arto della memoria, qual è il museo, ma un’arte della memoria, un’arte che nutra l’immaginario atrofico dell’uomo occidentale, che lo rianimi dallo stato fossile in cui è ridotto. Un’arte della memoria non dissimile da quella classica, che procedeva costruendo luoghi per ricoverarvi immagini. Ma luoghi, sia detto subito, immaginarî o virtuali, luoghi mentali, nei quali le immagini mantenevano la loro distinta natura dal corteo delle percezioni.

Nella percezione l’oggetto vi appare in una serie di profili, va appreso, bisogna moltiplicarne i possibili punti di vista. Ciò comporta “la necessità -chiariva il Sartre fenomenologo- di fare il giro degli oggetti“. Il cubo della percezione mostra solo tre delle sue sei facce e anche girandogli intorno e osservandolo, mi è impossibile averne una veduta complessiva. Se invece lo immagino con le sue sei facce e i suoi otto spigoli, “sono al centro della mia idea, la afferro tutta intera d’un colpo”. Nella percezione il sapere si forma lentamente, per sedimentazione. Nell’immagine, invece, il sapere è immediato; “un’immagine non si apprende: è esattamente organizzata come gli oggetti che vengono appresi, ma, in realtà, si dà tutta intera per quel che è, fin dalla sua apparizione” [5]. Naturalmente il divario s’acuisce e diviene radicale se l’immagine allenta o scioglie i legami col mondo delle cose per manifestare un tritone o un triangolo o altro ancora.

Da quest’angolazione la nostra non è la ‘civiltà delle immagini’. Ne è povera, straordinariamente povera. Trabocca, semmai, di percetti. Il mundus imaginalis medievale non vi alberga più; questa civiltà sembra aver smarrito la facoltà mitopoietica, la facoltà di forgiare immagini. Perciò bisogna coltivarle, e custodirle in acconci luoghi.

I mezzi di comunicazione di massa lanciano all’arte una sfida: creare immagini con le loro risorse. Il guanto va raccolto. Lasciare la tecnica della comunicazione ai tecnici e agli scienziati, agli uomini di diritto e ai politici significherebbe per l’arte abdicare alle proprie mansioni, condurre vita eremitica. Ma quando il deserto cresce, l’arte ha da coltivare oasi: questo è il suo compito. Bisogna guardare verso l’orizzonte dell’informatica. Il futuro è lì, in gestazione tra i chip. E l’informatica oggi consente di realizzare un’opera visiva come prima d’ora non è mai stato possibile.

L’artista può, creando l’opera, persino la più tradizionale, d’olio su tela per esempio, registrare le fasi dell’esecuzione e montarle con l’aiuto del computer, come il montatore del film, in modo che il suo pubblico viva la genesi dell’opera, viva l’opera nel suo farsi. L’artista può col computer costruire scenarî e ambienti, oggi, come un regista: può creare con l’ausilio dell’informatica una serie di luoghi o paesaggi virtuali costituiti da un accorto montaggio di singole opere; e questi luoghi virtuali costituiscono delle opere autonome; dei quadri mantengono l’unicità formale, ma rinunciando a quella materiale si propongono a un circuito infinitamente più ampio di quello canonico dei musei e delle gallerie. Il futuro è in rete. Sono questi i luoghi del futuro, i luoghi per le immagini. Sono questi i futuri spazî alternativi all’obsolescenza del museo, “casa dell’incoerenza”, o del groviglio.

E mentre il pubblico comincerà a godere queste opere virtuali, come virtuale è un normalissimo film, e tornerà a godere degl’indispensabili frutti dell’immaginario, il museo cesserà di fare la storia dell’arte, tornerà alla sapiente custodia del passato, al ruolo che epoche meno dissennate gli avevano assegnato. Si porrà al di sopra dei tormenti e delle sconfitte che il ferreo determinismo della storia infligge all’uomo d’azione, come voleva Malraux. Sulla sua facciata saranno incise a bella posta le parole di Valéry per il Palais de Chaillot: “ami, n’entre pas sans désir”. Amico, non entrare senza desìo.


  1. P. Valéry, Il problema dei musei, (1923), in Scritti sull’arte, Milano 1984, Guanda, p. 113.
  2. Queste le sue conclusioni, che ben restituiscono lo smarrimento già provato da Stendhal: “per quanto sia vasto il palazzo, per quanto capace e ordinato, ci troviamo sempre un po’ persi e desolati in quelle gallerie, soli di fronte a così tanta arte (il tondo è mio, N.d.A.)… Esco frastornato e vacillante dal tempio delle più nobili voluttà…”; ibid., p. 114.
  3. H. Matisse, Note di un pittore, (1908), in Scritti e pensieri sull’arte, Torino 1988, Einaudi, p.9.
  4. H. Rosenberg, Il museo oggi, in La s-definizione dell’arte, Milano 1975, Feltrinelli, p. 223.
  5. J. P. Sartre, Immagine e coscienza, Torino 1980, Einaudi, pp. 19-21.