Maurizio Nicosia

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Qual è la cosa più bella? L’armonia -rispondeva un pitagorico.
Giamblico, Vita pitagorica

Figlia del dio della guerra e della dea dell’amore, Armonia ha suscitato tre dei più penetranti frammenti di Eraclito. Il filosofo efesino dapprima coglie l’essenza delle sue origini mitiche: «ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia». Armonia deriva dal verbo greco harmòzo, cioè ‘congiungo, compongo’, dal calco harmòs, ‘giuntura’. Ciò che è sottaciuto nell’etimologia riaffiora nel mito: attraverso le origini mitiche di Armonia, Eraclito addita una pratica conoscitiva che nel disgiungere e nel congiungere ha il suo asse cardinale. Toccherà a Platone insistervi nel Fedro.
Anche nel secondo frammento eracliteo permane lo scenario mitico: «armonia che da un estremo ritorna all’altro estremo come è nell’arco e nella lira». Alle nozze di Armonia con Cadmo sono presenti le dodici divinità olimpiche, a testimoniare l’intero ciclo del corso solare: sono nozze cosmiche. Armonia riceve in dono da Ermete una lira, da Atena una veste aurea e la madre di Giasone la inizia ai misteri eleusini. Eraclito allude con gli «estremi» ai poli del tempo, principio e fine, del cosmo, i solstizî, e dell’esistenza, vita e morte. L’armonia, ritornando all’altro estremo, trascende dunque la sfera umana e la stessa temporalità .
Della narrazione mitica Eraclito trattiene il motivo della lira, aggiungendovi l’attributo d’Apollo, l’arco. A partire da questi elementi va letto il terzo frammento, caro agli architetti e ai musici di tutti i tempi: «armonia invisibile della visibile è migliore». Se è legittimo leggervi un analogo della dottrina pitagorica dell’armonia delle sfere, allora l’armonia visibile si darebbe nel mondo fenomenico, l’invisibile potrebbe essere còlta solo nei rapporti intelligibili che determinano il visibile. Mediante la lira è forse possibile restituire parte del senso a questo frammento: di per sé visibile, la sua forma cela gl’intimi rapporti che correlano gli accordi fra le sue corde.
Filolao, pitagorico crotoniate celebre e per la sua scienza armonica e per aver ceduto a Platone i famosi libri di Pitagora, è il primo a precisare i rapporti numerici corrispondenti agl’intervalli fra le quattro corde della lira, le cui lunghezze sono pari a sei, otto, nove e dodici unità .
Fra la prima e l’ultima il rapporto è pari a un mezzo, o diapason (ottava); fra la prima e la terza, nonché fra la seconda e la quarta gl’intervalli sono equivalenti a due terzi, o diapente (quinta); fra la prima e la seconda, fra la terza e la quarta, infine, i rapporti sono di tre quarti, o diatessaron (quarta). Nella Roma del terzo e quarto secolo sarà Porfirio, in Armonia tolemaica, a descrivere natura e qualità delle consonanze armoniche.
L’armonia «invisibile» si fonda dunque sulle tre consonanze insite nei primi quattro numeri. Nella disciplina pitagorico platonica ciò comporta implicazioni metafisiche e cosmogoniche. Il diapason, o 1:2, manifesta il rapporto tra il principio immobile o «deus absconditus» e la «diade infinita», ovvero tra l’Uno e il molteplice o, scolasticamente, tra spirito e materia. In esso sono già implicite le altre due consonanze e perciò costituisce l’armonia perfetta secondo Filolao (6:12 = 6:8 + 8:12 o 6:9 + 9:12). Nel diapente, o 2:3, la materia, o archetipo femminile, è correlata al tre, principio manifesto corrispondente al nous, o intellectus, e all’archetipo maschile. Nel diatessaron, o 3:4, il principio manifesto s’accorda con la materia «formata», la forma entra in relazione con il solido. Le tre consonanze quindi descrivono nel loro sviluppo geometrico e musicale l’emanazione che dall’Uno procede sino al molteplice. Sono il canto d’un organismo vivente, il canto dell’universo.
Si può dunque comprendere perché Vitruvio, che all’armonia dedica un intero capitolo del suo trattato sull’architettura, indichi nel rapporto 1:2 l’ideale pianta del tempio: esso diviene così specchio dei poli fra i quali l’universo intero si manifesta, concertata e armonica immagine del mondo.
Leon Battista Alberti, l’architetto del riminese tempio malatestiano dalle inderogabili proporzioni pitagoriche, scrisse a Matteo de’ Pasti, l’esecutore che modificava parti del progetto, di non rovinargli «tutta quella musica». Anche l’architetto dispone dunque della sua lira nell’orchestrare le parti e i volumi d’un edificio, disgiunge e congiunge articolando nello spazio le tre consonanze e gli accordi che ne derivano.