[label style=”grey”]Testo per il catalogo del concorso GAEM del 2013[/label]
La storia del mosaico è la storia d’una ascesa. Infisso al suolo, a rendere perenne il tappeto, nel tempo guadagna le pareti e infine s’installa sugli archi, sulle volte, sulle cupole. La metamorfosi comporta un cambio d’abito, la pietra si fa smalto per sposare la luce e vincere la gravità. L’incorporeità agognata si riflette sulle figure e sui motivi, che rinunciano allo scorcio per esaltare la planarità della parete e celebrare una vita priva della terza dimensione, libera dal peso.
Una vita salutare, secondo i Pitagorici, in cui la forma persiste sfuggendo alle insidie del tempo. La materia che s’intride di luci e colori, aerea, lieve come le nubi nel blu intenso, profondo e però immateriale del cielo: un sogno che solo il mosaico, forse, ha voluto e saputo mostrare.
La storia sembrava aver preso altra piega, dopo la stagione informale: sceso dalle pareti, accomodato sul cavalletto, il mosaico s’era tuffato nella materia, anch’esso ne aveva fatto il paradigma d’un dramma esistenziale. La rapidità, l’immediatezza, il gesto istintivo e rapsodico hanno scardinato l’essenza del mosaico, fatto di tempi lunghi, frutto di gestazione lenta, di atti ponderati, ciclici che divengono rito. La tessera dilatata oltre misura era tornata pietra, lacerto, non di rado relitto. Invece dell’ascesa, la mise en abîme.
Oggi, che non è più obbligatorio trasgredire, la giovane generazione di artisti che si cimenta col mosaico sembra avere nuovamente imboccato la strada dell’ascesa, che però ha il timbro di Melotti, di Calvino: la leggerezza. Strada, però, è fuorviante. Forse è più accorto parlare di giardino e di sentieri che si biforcano e intrecciano, ma che trovano convegno grazie al GAEM di quest’anno.
Uno dei sentieri è agli antipodi della stagione informale, sprofondata nella materia. Al punto da sottrarre al mosaico la sua stessa sostanza, trattenendone solo l’essenza: la dialettica di ordito e trama, di ombre e lumi. Il mosaico come evocazione della luce, dell’incorporeo, reticolo di pura forma. Un mosaico senza materia, senza peso.
Andrea Poma ne è l’esempio più asciutto: il suo cristallo lievemente inciso d’interstizî è sospeso, trasparente, sembra galleggiare nello spazio aperto. È compito della luce proiettare sulla parete la sua trama impalpabile, quasi invisibile. E nemmeno troppo paradossalmente è l’ombra a rivelare la sua forma.
La stessa impalpabilità attraversa la performance di Andrea Sala e Giulia Alecci, intenti a disegnarsi tessere sul corpo. I corpi, appena sfiorati dal pennello, nudi. Il mosaico è anche in questo caso reticolo senza materia. Pelle dell’architettura un tempo, ora è divenuto abito incorporeo, ed epicentro d’un rito lieve, lento e intenso.
Mosaizm percorre un sentiero affine. Di Galla Placidia resta la traccia della pianta, e giusto il cuore dell’alzato, come nuda struttura. Le sfere specchianti, anch’esse sospese come il cristallo di Andrea Poma, e come l’Appeso dei tarocchi, proiettano grazie ai led schegge di luce nella stanza avvolta dal buio. Pure in questo caso il mosaico si risolve in luce e nella sua capacità di destare mondi incorporei.
Oltre alla sottrazione di peso vi sono altre forme di leggerezza, che magari ricorrono alle materie tradizionali, insistendo persino sui canoni sintattici del mosaico, ma che si volgono sul soggetto, sul significato, piuttosto che sulla forma.
Silvia Naddeo fa appello all’ironia. MyPanino è frutto d’un lavoro meticoloso e paziente, canonico, che però trasforma il mosaico in un prodotto di consumo. Il mosaico, slow food per eccellenza, diviene fast food da consumare in rete.
Luca Barberini sembra rievocare la stagione aniconica del mosaico, per l’uso delle tessere, ma in direzione opposta: esaltando il loro valore, trasformandole in icone. La tessera nel mosaico tradizionale è solo parte d’un tutto, nei suoi ritratti acquista una inusitata identità. Come la biblica pietra angolare scartata dai costruttori, gli smalti scheggiati, i pezzi irregolari e anomali rivelano una prepotente personalità e divengono il fulcro di una variopinta e sorprendente galleria di caricature.
Punto d’incontro tra la leggerezza della forma e la leggerezza del contenuto la Casa inquieta di Jae Hee Kim. La tessera non è svanita del tutto, si è però assottigliata sino a divenire equivalente a un punto. E la trama, fitta e sottile, la fa sembrare a distanza un disegno lieve, accennato. Ma appena ci si avvicina affiorano le inquietudini. Della casa, luogo intimo per eccellenza, anzi l’incarnazione dell’intimità, resta solo il profilo esterno e vago –anche in questo caso incorporeo– mentre l’ombra, corposa, si allunga a dismisura. E le tessere si rivelano essere chiodi sottilissimi e acuminati. Una casa per fachiri, insomma, da cui l’intimità sembra bandita. Calvino, sintetizzando le varie forme di leggerezza nella sua celebre lezione americana, individuava “una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico”. Proprio il caso della Casa inquieta.
Già, Calvino. A lui dobbiamo una lucida esortazione alla leggerezza. La sua celebre riflessione si era innescata sulle pagine di Valéry, che raccomandava: bisogna essere leggeri come l’uccello, non come la piuma. Ma Valéry, a sua volta, guardava a Nietzsche, e proprio lui si rivolgeva direttamente ai mosaicisti: “Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola la leggera”. C’è ancora lavoro per far volare le pietre di confine, e sarà impossibile senza il contributo dei mosaicisti.