Benjamin è un ragazzo di poche parole. Di sì e no, di bianchi e neri. E, in fondo, anche i suoi lavori sono così: essenziali, silenziosi, di bianchi e neri.
L’opera di Benjamin Murphy nasce come un gioco, ma diviene col tempo lavoro di una vita e forse anche di più: senso di un’esistenza. Comincia con gli studi di grafica per poi scoprire un giorno che il suo linguaggio è quello della Tape Art: il medium è lo scotch, semplice scotch isolante nero, né più né meno. Compone le sue opere a suon di scotch e taglierino e con essi disegna e tesse la trama dei suoi lavori, disegni mai scontati, con soggetti e temi che ritornano, ma sempre diversi e con un misto di onirico e realistico che affascina chi li osserva.
Giovedì 7 maggio noi studenti dell’Accademia abbiamo avuto modo di confrontarci con lui, in un dialogo serrato fatto di intense domande e risposte, di bianchi e neri, che ci hanno dato l’opportunità di conoscere un giovane artista che si misura quotidianamente col mestiere dell’arte con cui anche noi, un giorno e fin d’ora, ci misureremo. Colpisce del suo lavoro l’estrema semplicità e trasparenza con cui arriva al risultato finale dell’opera: i suoi disegni non hanno nulla di misterioso a livello tecnico-realizzativo e l’immediatezza con cui si comprende il suo modo di operare lascia sorpresi nel momento in cui ci si rende conto che il suo non è semplicemente un ‘mettere o togliere dello scotch’ per creare un’immagine, ma è piuttosto maestria tecnica e arguzia intuitiva nel saper creare opere la cui atmosfera è davvero avvincente e intrigante.
Spesso ambientate in interni domestici, il soggetto principale è perlopiù la donna, solitamente nuda e in atteggiamento statico e pensoso. Centro focale dell’opera è di frequente lo sguardo, uno sguardo assente, perché l’occhio è privo di pupille o perché il soggetto ritratto è a occhi chiusi.
–Benjamin ho notato che nelle tue opere gli occhi non sono disegnati o sono chiusi… Come mai?, chiede una di noi. La risposta arriva ed è semplice: –L’assenza ha come scopo la presenza, gli occhi sono vuoti così da poter contenere. A voler dire, in definitiva, che solo nell’assenza di emozionalità lo sguardo può caricarsi dell’espressione che lo spettatore vede in quegli occhi. Ed è così che ciascuno di noi si sente partecipe del momento rappresentato.
Con sé Benjamin ha portato un suo lavoro da mostrarci in anteprima (ora in mostra presso la Galleria Mirada di via Mazzini) e vederlo accende in noi diverse domande. Ci chiediamo per esempio come sia avvenuto il passaggio dai grandi lavori di Street art (che fino a poco tempo fa realizzava) a quelli di dimensioni ridotte come quello che ci mostra. E la risposta, anche questa volta, arriva senza esitare, è chiara, è bianco e nero: –Ho cominciato a voler verificare fino a che punto potevo spingermi con le dimensioni dei miei lavori –spiega– e sono arrivato così al massimo della mia sperimentazione in grandezza disegnando su di un grattacielo. Da quel giorno ho capito che oltre non potevo andare e ho cominciato la ricerca nel senso opposto, cercando di vedere quanto più possibile mi era ridurmi in piccolo. Ora sono in questa fase qui, ricerco il piccolo. E ci mostra la foto di intagli di scotch dalle dimensioni di minuscoli insetti che sono i particolari di opere più grandi.
La nostra curiosità arriva anche a chiedergli come riesca a vivere del suo lavoro, quali i prezzi delle opere e i committenti. Per poi chiedergli dei suoi gusti artistici e delle tecniche da cui si sente attratto.
–Conosci i fumetti di Dylan Dog? Nel suo disegno sembra evidente il riferimento al disegno dei fumetti, come nota uno di noi, eppure Benjamin ci tiene a precisare che questo genere non gli appartiene.
Così come non trae mai ispirazione, stando a quanto afferma, da brani musicali, mentre continuo è il confronto con testi scritti, siano essi poesie o racconti. Sento poi il bisogno di chiedergli: –Benjamin, ma tu come vivi le tue giornate? Come riesci a trovare il giusto equilibrio tra l’essere autore e al tempo stesso fruitore? Da cosa trai nutrimento per ciò che fai? So bene infatti come sia difficile far coesistere il bisogno di voler fare e creare ciò che si vuole e l’esigenza di mettersi in ascolto dei maestri e, più in generale, dell’altro da sé. E ci risponde dicendo che le sue giornate non hanno uno schema: odia le strutture, non riesce a viverci dentro e ha bisogno di vivere ogni giorno come ritiene più opportuno. C’è chi s’impone, per esempio, un preciso numero di ore al giorno in cui dedicarsi esclusivamente al disegno. Ma lui, ci dice, non è assolutamente così, non riesce a fare schemi. Quello che sa con certezza è che le sue giornate sono intrise di disegno e lettura, immancabili presenze della sua vita.
Tante sono le domande e le pronte risposte e alla fine dell’incontro c’è chi si lascia autografare la propria agenda o l’invito alla mostra. Esco dall’aula per prender una boccata d’aria e mangiarmi una mela. Torno e trovo Benjamin che ricama sullo scotch piccole chiavi da regalare a qualcuno di noi. È uno spettacolo di fronte al quale m’incanto e mi perdo a guardare. Consapevole che, in fondo, è solo dalle piccole cose che si costruisce qualcosa di grande.