Una mostra dell’Accademia di Belle Arti per ridisegnare il volto della nuova Ravenna
«Dàrsena: in dialetto siciliano tirzanà; in portoghese tercena, taracena; in spagnolo a-tarazana: dall’arabo Dâr çanah,1 composto di Dâr casa e çanah (o senâa) fabbrica, costruzione, cioè casa o luogo di costruzione (cfr. Arsenale). La parte più interna di un porto, cinta per lo più di muraglia, dove si ritraggono le navi per racconciarle o si custodiscono disarmate». Così si legge nel Vocabolario Etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, del 1907, consultabile on-line sul sito www.etimo.it.
A Ravenna quel “muro” esiste ancora, nonostante le assicurazioni che il suo abbattimento sarebbe stato il primo passo per poter accedere liberamente a quella parte della città, nascosta, per anni, agli occhi della maggior parte dei cittadini e perlopiù rimossa; ci volle, infatti, la tragedia della Mecnavi per farla di nuovo “materializzare”. Quell’eliminazione delle barriere era in testa alle richieste uscite dal processo di urbanistica partecipata La Darsena che vorrei. Speriamo che, a breve, quell’ostacolo sia finalmente buttato giù. Da anni, inoltre, inutilmente, vado proponendo che proprio nella Darsena venga trasferita l’Accademia, un tempo luogo dedicato al mitico Academo (Ἀκάδημος); collocato nei pressi di Atene e circondato da un bosco sacro, Platone vi fondò appunto l’Accademia, la sua scuola di filosofia.
La “modernità”, a Ravenna, ha distrutto i boschi sacri per far posto alle industrie; pensare di tornare a quei mitici inizi sarebbe però impossibile. Non ci resta che ragionare sul nostro recente passato, cercando di non radere al suolo tutte le sue memorie (salvando dunque alcuni segni come le torri di raffreddamento dell’ex S.A.R.O.M. e l’archeologia industriale in Darsena).
Ho anche immaginato, e l’ho proposto recentemente, che si potesse cambiare il nome di via delle Industrie, dove oggi si trova e dove rimarrà per anni la sede della nostra Accademia (una volta, bisogna sempre ricordarlo, sede della gloriosa “Albe Steiner”, troppo spesso dimenticata), dedicandola a Michelangelo Antonioni, di cui quest’anno si ricorda il centenario della nascita (29 settembre 1912). Inoltre, tra il 1963 e il 1964, fu girato e uscì nelle sale Deserto rosso, il film che ha fatto conoscere al mondo un’altra immagine di Ravenna, lontana dagli ori dei mosaici, ma vista attraverso i colori artificiali dell’industria chimica (dunque ci aspetta un cinquantenario, fra non molto, da celebrare degnamente). Purtroppo, pare che debbano trascorrere dieci anni dalla morte perché si possa dedicare a qualcuno una via o una piazza. A parte se si è stati papi.
Un momento dell’allestimento della mostra
Ecco una serie di motivi per cui il coordinatore dell’Accademia, prof. Maurizio Nicosia, di concerto con alcuni docenti –Alessandra Andrini, Paola Babini, Michele Buda, chi scrive, Leonardo Pivi, Daniele Strada, Pier Carlo Ricci– e con il decisivo appoggio della dirigente Mirella Borghi, ha deciso di organizzare e curare, in occasione della Notte d’Oro 2012, una mostra di lavori degli studenti dedicati alla Darsena e prodotti nello scorso anno accademico. C’è da dire che non è da quest’anno che l’Accademia s’interessa alla Darsena: da tempo alcuni corsi hanno posto al centro delle loro riflessioni teorico-pratiche questa parte di città, in particolare quello di fotografia di Guido Guidi, nonché quello di Architettura e Urbanistica di chi scrive. La mostra, inaugurata durante la Notte d’Oro, è rimasta aperta, nella sede di Santa Maria delle Croci, dal 20 al 28 ottobre.
I lavori degli studenti erano così suddivisi all’interno dell’ex spazio liturgico: nell’abside, collocati su cavalletti metallici, erano esposte opere a mosaico su tavola di Cristina Bizzocchi, Daniela Cavicchi, Tiziana Del Vecchio, Carla Guerra, Martina Paparo, Giorgia Pettinari, Marica Pelliconi, Giovanna Tinnirello Sammito, Sofia Signani e Virna Valli (corso di Tecniche del Mosaico, Triennio, di Daniele Strada). Prevalentemente a tessere bianche, grigie e nere, erano dedicate a dettagli di visioni architettoniche della Darsena (edifici industriali, ma anche la Torre di Cino Zucchi).
Nella zona centrale della navata, leggermente sulla sinistra e disposti ad anfiteatro, erano sistemati cinque modellini del corso di Elementi di architettura e urbanistica del I anno del Biennio Specialistico di Mosaico, visualizzazioni di progetti nuovi e di riuso di edifici industriali. Nello specifico: un nuovo albergo piramidale su via D’Alaggio a fianco della Torre di Zucchi, caratterizzato dall’utilizzo di mosaici colorati e vetri-specchio (progetto di Michele Dibari); un piccolo parco urbano, contraddistinto da un grande pannello inclinato, bucato dal contorno di immaginarie tessere perdute di un gigantesco mosaico, in modo che l’unica cosa che realmente rimane è il legante delle tessere stesse, e tale che, colpito dalla luce del sole, il pannello stesso riflette sull’acqua la sagoma delle tessere di luce, continuamente mosse per via delle onde (progetto di Andrea Poma); un osservatorio astronomico cubico, progettato in mezzo all’acqua, su una piattaforma, e collegato alla banchina da un ponte (progetto di Melissa Moliterno); un restiling delle ex torri di Raffreddamento della S.A.R.O.M., immaginate come il re e la regina di una scacchiera, l’uno rivestito di un manto di tessere d’oro e l’altra di tessere d’argento (progetto di Elena Prosperi); infine, un’analoga rivisitazione delle due torri, pensate però, in questo caso, come due “matrioske” (progetto di Erica Gallassi). In pratica, per le due allieve dell’Accademia, i due giganteschi “camini” sono immaginati come segnali visivi di accoglienza per chi, dalla costa, entra a Ravenna.
Nella prima cappella di destra – come una tavola votiva – era sistemata una riproduzione di un mosaico di Samatha Holmes, dal titolo Absence, pensato per essere inserito in una parete in mattoni dell’edificio dell’ex Pansac, su via D’Alaggio.
Nello spazio adiacente alla navata, sulla sinistra, erano appese alcune grandi fotografie di Loretta Merenda, facenti parte del lavoro L’altalena (un’Alice in Wonderland immaginata a passeggio per la Darsena). Le prime due mostravano come l’attuale muro di banchina che circonda il bacino dell’acqua impedisca allo sguardo di un bambino (Alice) di vedere l’orizzonte rispetto ad un adulto (la sorella Lorina); le altre tre, collocate in una nicchia del muro, rivelavano come lo sguardo fantastico di Alice colga nella semplice gru, osservata da Lorina, una magnifica altalena. Un progetto per far riflettere gli adulti.
Sulla parete di fronte era disposta una serie di scatti fotografici della Darsena, opera di Angelo Vignolo, di recente diplomato al Biennio di Mosaico. Nell’ultima stanza, in penombra, tre iMac mandavano in loop tre serie di sequenze fotografiche della Darsena (foto storiche e recenti). A questo proposito, l’aspetto virtuale è stata una delle scelte caratterizzanti la mostra: entrando, infatti, si potevano vedere due bianchi “pilastri” sormontati da due videoproiettori, uno puntato verso la contro-facciata, ed uno sulla parete di sinistra; il primo mandava in loop una serie di fotografie della Darsena; il secondo proiettava alcuni lavori degli studenti, presenti o meno nella mostra. Nel primo caso, il proiettore era collegato ad un iMac in modo che i visitatori, passando davanti alla sua telecamera, venivano a sovrapporsi alle immagini, ritrovandosi a passeggiare virtualmente negli spazi della Darsena.
Se non sarà possibile realizzare l’auspicio che Le Corbusier fece ai suoi amici olandesi di costruire la loro scuola d’architettura – in questo caso d’arte – su un vecchio paquebot attraccato alle banchine del porto, speriamo almeno che le idee degli studenti servano a rivitalizzare la progettualità, fatta di Memoria e di Progetto del Nuovo – pur nei tempi durissimi della crisi globale –, su questo piccolo microcosmo, ma così importante per il futuro della nostra città.
L’articolo, pubblicato su “Trovacasa” n. 78, nov.dic. 2012, in formato PDF
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