Le origini ermetiche della più enigmatica opera del Novecento, il Grande vetro di Marcel Duchamp
Lo svanimento della luce
Per l’uomo occidentale la luce è principalmente, se non esclusivamente, una risorsa tecnica. Non è più frequente che sia pensata come fonte di vita, è ormai raro che sia pensata come una metafora della conoscenza, e rarissimo che sia concepita come la manifestazione vivente d’un ente metafisico o dell’intelligibile nel sensibile.
Parimenti nel mondo dell’arte odierna la poetica della luce rappresenta solo un ramo secco. La pittura dello scorso secolo si è così profondamente addentrata nelle viscere della materia, nei suoi più minuti travaglî, da perdere il senso globale della forma e lo stesso senso della visibilità, che presuppone e implica la distanza. Da questa immersione ne emergono, quasi come i reduci d’una battaglia, il gesto dell’artista e grandi campiture o tessiture cromatiche, che si propongono e affermano in luogo della narrazione e della composizione per mezzo di forme.
Non diversamente accade in quelle opere che ricorrono a mezzi diversi da quelli pittorici; se vi appaiono tubi al neon, la luce di Wood o altro ancora, essi rappresentano poco più che protesi tecnologiche. La limpidezza, la trasparenza, la visibilità non costituiscono più oggetto di ricerche poetiche nel campo delle arti visive. D’altronde una poetica della luce si manifesta sempre in stretta correlazione con una metafisica della luce, e ne sono esempî eloquenti il mosaico bizantino e la vetrata gotica, la limpida, tersa misura di Piero della Francesca, Vermeer e Seurat o i drammatici conflitti di tenebre e luce nelle tele di Caravaggio e Rembrandt.
Ogni qual volta il fiume carsico del platonismo è riaffiorato nella storia, ha con pazienza ritessuto i fili d’una metafisica della luce, seminando simboli e metafore nel fecondo terreno della poesia e dell’arte. Ma l’oggi, così teso a monetizzare il tempo e a valutare all’impronta ciò ch’è remunerativo, non può avere interesse o anche solo attenzione per chi coltiva e custodisce una qual sia metafisica o una concezione poetica.
Non v’è dunque da stupirsi dello svanire d’una metafisica e poetica della luce, ma del contrario: che ancora qualcuno se ne occupi, mostrando sovrana indifferenza per il guadagno, il successo, la produttività, la gloria.
Duchamp e la luce
È questa la principale ragione dell’immenso stupore che suscitano Marcel Duchamp e la sua opera. Totalmente disinteressato e al successo e al profitto, Duchamp si accontentava del modesto guadagno da bibliotecario per coltivare i suoi studî di metafisica e cosmogonia. Ha firmato un numero esiguo di opere, con grande rammarico dei suoi rari e ricchissimi collezionisti, che lo dovevano letteralmente implorare per ottenerne talvolta una.
Per lunghe stagioni si è distolto dall’ambiente artistico, preferendo dedicarsi ai tornei di scacchi e alla strategia del gioco o a ricerche del tutto improficue che gli consentissero di evitare perdite e vincite al casinò. L’assoluta unicità della figura di Duchamp, nel panorama artistico del Novecento, risiede proprio nell’aver coltivato con silenziosa tenacia un ramo secco: una metafisica poetica della luce.
Una ricerca così desueta, la sua, che la critica, che pure si è accanita sul suo lavoro ricoprendolo d’una fittissima vegetazione interpretativa, raramente, quasi mai, ne ha dato conto. Raramente, si dovrebbe aggiungere, se n’è accorta. Ha insistito sulle fonti alchemiche della sua opera, sul suo esoterismo, sugli aspetti psicoanalitici, inconscî e nascosti, sulle presunte pulsioni incestuose dell’artista nei confronti della sorella; su tutto insomma, fuorché paradossalmente su ciò che Duchamp voleva comunicare.
Eppure tracce d’un particolare interesse di Duchamp per la luce è possibile coglierle in abbondanza sia nelle sue opere che in ciascuna delle molteplici annotazioni che ha scritto a margine e a sostegno del suo lavoro. La sua più celebrata e impegnativa opera, per cominciare, nota come Grande vetro, è un’apoteosi della trasparenza e dunque della luminosità.
E sono tracce vistose: pochi, pur ricordando che Duchamp definì il Grande vetro «un mondo in giallo», hanno sottolineato che ciò sottende una propagazione della luce negli strati della materia. Pochissimi poi hanno aggiunto che Duchamp ne ipotizzava «l’esecuzione per mezzo delle sorgenti luminose». Nessuno, ch’io sappia, ha descritto il Grande vetro per ciò che è: un cosmogramma della luce, ovvero una rappresentazione simbolica dell’emanazione universale della luce e, al contempo, un viatico per tornare alle origini, alla luce stessa.
Una base in «massoneria»
Nella stagione delle avanguardie il Grande vetro cresce lentamente, corroborato da una sostanziosa quanto criptica elaborazione teorica e progettuale. Questa poderosa mole di note viene raccolta da Duchamp in due «scatole» che verranno pubblicate in tiratura limitata.
È ai testi e disegni contenuti in queste scatole che l’artista francese ha consegnato i cardini della sua concezione metafisica. Ampî capitoli, considerando la sua laconica ed ermetica scrittura, sono dedicati a temi o soggetti inerenti la luce: a uno dei due principali elementi del Grande vetro, cioè il «gas illuminante», o alla «illuminazione interna» e alle ombre, o all’apparenza e all’apparizione, che presuppongono ambedue la luce. Nella prima scatola, che raccoglie le riflessioni e i progetti dal 1912 al ’14, è contenuto uno schizzo, vergato di slancio su carta da musica, con un ciclista che sale un pendio. In calce, a matita, Duchamp ha scritto: «Avere l’apprendista nel sole».
La frase, forse perché sembra astrusa e priva di senso, non ha suscitato adeguata attenzione. Eppure rappresenta un altro nitido ed esplicito segno dell’interesse di Duchamp per la luce e risulta chiara a consultare i rituali massonici: essa allude alla fase conclusiva dell’iniziazione, al momento in cui finalmente l’apprendista, giunto dopo una serie di viaggi a oriente, riceve la luce. Il ciclista che affronta con sforzo e slancio la salita si cimenta in realtà con l’ascesa iniziatica.
Bisogna aggiungere che Duchamp, in un’altra nota per il Grande vetro, spiega che questo congegno ha una base in «maçonnerie», parola che in francese non significa solo la ‘muratura’. Se avesse voluto indicare esclusivamente una base edilizia, senza incorrere in fraintendimenti, il Francese gli offriva l’inequivocabile termine ‘murage‘. Che invece giocasse sul doppio senso della parola «maçonnerie» lo suggerisce anche l’uso, in alcuno dei suoi scritti, dei tre punti massonici. Dunque, secondo il suo autore, il Grande vetro ha un fondamento in «massoneria» e il tema sotteso a quest’opera è analogo al percorso massonico: l’ascesa iniziatica che conduce alla luce.
Il congegno del Grande vetro
Il Grande vetro è agli antipodi della pittura dell’epoca, vibrante di segni e pasta cromatica, protesa a rappresentare il movimento o lo sfaccettarsi dello spazio in una miriade di piani. In quest’opera, invece, severamente tratteggiate e circoscritte da filo di piombo, le nitide e curiose figure sono imprigionate tra due lastre di vetro, di quasi tre metri, come gl’insetti nell’ambra. Sospese nel vuoto spazio, sembrano sospendere il tempo. Il Grande vetro è un ritratto dell’immobilità.
Il titolo originale, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche, indica che i singolari marchingegni congelati nel vetro racconterebbero il denudamento d’una sposa, il suo disvelamento.
Nella zona inferiore è minuziosamente descritto «l’apparecchio celibe», composto da un mulino ad acqua e un’improbabile macinatrice di cioccolato montata su un tavolo in stile Luigi XV, che raccolgono sforzi e desideri di nove «stampi maschili»; nella zona superiore «il regno della sposa» si distingue per una nube, la «via lattea», che sembra sprigionarsi da un meccanismo di vaghissimo aspetto umano. Il Grande vetro è dunque il disegno d’un congegno il cui funzionamento è spiegato dalle scatole di annotazioni di Duchamp.
Sopra vi è la multiforme: Vergine, Sposa, Iside ed Euridice, la «Signora suprema del mondo» -avrebbe detto Goethe- l’eterno elemento femminile che ci trae verso l’alto, cioè l’idea: in questa regione, annota Duchamp, «le forme principali non hanno più una commensurabilità». Sotto, invece, alberga la chiusa società degli uomini che ha una base in «massoneria».
Schema del Grande vetro
Il regno della sposa (metà superiore)
7c-e: Sposa; 7a: anello di sospensione 8-9: Pistoni di corrente d’aria inscritti nella nube che è la ‘via lattea’; i punti contrassegnati col 17 sono i ‘nove spari’, sotto cui, in corrispondenza del triangolo, vi doveva essere il ‘quadro di ombre proiettate’; Duchamp lavorò otto anni a quest’opera e la lasciò incompiuta.
Apparecchio scapolo, base in «massoneria» (metà inferiore)
A sinistra, contrassegnati dal 2, i nove ‘stampi maschi’, dietro il ‘mulino ad acqua’; al centro la ‘macinatrice di cioccolato’ (5b), posta su un tavolo Luigi XV (5a), sovrastata dalle ‘forbici (6), e dai setacci (3): i coni in semicerchio; a destra le forme ellittiche a raggiera o ad anelli sono i ‘testimoni oculisti’ (15-16).
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Duchamp ha descritto il Grande vetro come un motore, alimentato dal desiderio d’amore, che produce lo «sboccio» della Sposa. Come il ciclista impegnato nell’ascesa iniziatica è il motore umano d’un mezzo costituito da due parti, le due ruote, così il Grande vetro consta di due parti e può essere paragonato, secondo Duchamp, a un’auto che sale un pendio:
la macchina desidera sempre più la vetta della salita, e sempre accelerando lentamente come stanca di speranza, ripete i colpi di motore regolari a una velocità via via maggiore fino al rombo trionfale.
La strada percorsa da questo singolare veicolo iniziatico non è dissimile da una piramide. È ben definita in larghezza e spessore al suo inizio, avverte Duchamp, e diventa progressivamente senza forma topografica, una «linea pura geometrica senza spessore, avvicinandosi a quella retta ideale che trova il suo sbocco verso l’infinito». L’inizio del viatico ha la sostanza della «selce sfaldata», cioè s’approssima alla pietra grezza, e alla fine si sbriciola in «polvere d’oro» in sospensione, più leggera dell’aria: in purissima materia luminosa. È il viaggio dell’apprendista massone.
A innescare il funzionamento di questo veicolo iniziatico concorrono due elementi, la «caduta d’acqua» e il «gas illuminante». Essi consentono di determinare secondo Duchamp «le condizioni del Riposo istantaneo di una successione di fatti diversi per isolare il segno della concordanza tra questo Riposo, da una parte, e dall’altra una scelta di Possibilità». Duchamp ha affermato che «l’arte è uno sbocco su regioni dove non dominano né il tempo né lo spazio»: è questo il luogo del «Riposo istantaneo». A sostituire «Riposo» con l’Uno platonico e «scelta di Possibilità» con il concetto di molteplice, si può dunque leggere una variante contemporanea del principio ermetico che tutto è Uno: caduta d’acqua e gas illuminante servono a isolare il segno della concordanza tra l’Uno e il molteplice.
Non è difficile a questo punto individuare nella caduta d’acqua e nel gas illuminante quella via discendente e ascendente che Eraclito ricordava essere una sola e la stessa. Principî universali, come segnala un’altra opera dell’artista, Acqua e gas a tutti i piani, cioè presenti in ogni grado di manifestazione dell’essere: la caduta d’acqua e il gas illuminante sono i due poli della cosmogonia ermetica che ha per origine la luce. Ma per intenderne il senso è necessario tornare alle radici del Grande vetro e il lettore mi perdonerà: la strada comincia a inerpicarsi.
Le origini del Grande vetro
Il progetto del Grande vetro prende corpo intorno al 1912 nel multiforme crogiolo della Parigi d’avanguardia, dopo un viaggio che Duchamp effettua nelle montagne del Giura in compagnia del pittore Picabia e del celebre poeta Guillaume Apollinaire, il critico e sostenitore dei cubisti.
Al ritorno Duchamp appunta i primi pensieri sul Grande vetro e tratteggia la strada iniziatica che si trasmuta in pura linea, in polvere d’oro, precisando che è un «fanciullo-faro» a compiere l’operazione.
Il fanciullo-faro non è altri che lo stesso Apollinaire, che nella raccolta di poesie Alcool, pubblicata proprio dopo il viaggio con Duchamp, vanta nobili genetliaci («la luce è mia madre») e luminosi compiti («E io brucio portatore di soli al centro di due nebulose») che richiedono un adeguato nutrimento: «a grandi sorsate trangugiavo le stelle».
Di lì a qualche mese il poeta annuncerà la (ri)nascita dell’«orfismo», movimento con cui l’arte, dichiara, arriva «in piena poesia alla luce». E Duchamp ne è uno dei principali protagonisti. Non poteva essere altri che Apollinaire il fanciullo-faro, la guida verso la luce: anche Savinio, il meno noto ma non meno creativo fratello di De Chirico, riconosceva all’occhio di Apollinaire la virtù magica trasmessa dalla «polvere solare» (sulla “polvere d’oro”, la “poudre d’or“, aleggiavano già da una decina d’anni le note di Satie).
È il sapiente occhio di Apollinaire a condurre Duchamp ad assistere alla pièce teatrale di Raymond Roussel Impressioni d’Africa, che l’artista ricordò in seguito come l’origine del Grande vetro. In questa macchina teatrale disseminata di ordigni meccanici, costituita da nient’altro che una sequenza ininterrotta di congegni simbolici, Apollinaire probabilmente additò a Duchamp un curioso marchingegno chimico-musicale che nessuno ha finora notato essere il diretto antenato del Grande vetro.
La voce della luce
Anche il congegno di Roussel è un’enorme «gabbia di vetro», condotta in scena dal chimico «Bex», atta a contenere «un immenso strumento musicale formato da diffusori a tromba di rame, corde, archetti circolari, tastiere meccaniche d’ogni sorta». Ad azionare questa polimorfica orchestra automatica è l’energia prodotta da due grossi cilindri, uno rosso e uno bianco. Il cilindro rosso contiene «una sorgente di calore di eccezionale potenza», quello bianco produce «un freddo intenso capace di rendere liquido qualsiasi gas».
È un peccato che finora la critica non abbia sondato il lavoro di Roussel. Avrebbe riconosciuto nei cilindri rosso e bianco le colonne del mondo e gli avi del gas illuminante e della caduta d’acqua di Duchamp, e invece d’insistere sul presunto dualismo del Grande vetro, avrebbe viceversa individuato nella caduta d’acqua uno stato di condensazione del gas: una variazione della stessa sostanza originaria. Sostanza luminosa, a considerare le osservazioni di Duchamp sugli oggetti: «l’oggetto è illuminante. Il corpo dell’oggetto è composto di molecole luminose… ogni materia nella sua composizione chimica è dotata di una “fosforescenza” e “s’illumina”».
E nello stesso testo, quando Duchamp sottolinea la «massa di elementi di luce», s’intravede nuovamente il motivo della polvere d’oro e s’intuisce una visione monista che forse si radica nella metafisica di Roberto Grossatesta, che coglie nella luce «la prima forma corporea». Il congegno chimico musicale di Roussel, in particolare le colonne rossa e bianca, si prestava a una lettura ermetica nel solco del Pimandro che certamente Apollinaire non si lasciò sfuggire. Ermete Trismegisto è figura molto cara al poeta, sovente attraversa i suoi versi. Ma Apollinaire lo cita testualmente nel Corteo d’Orfeo, pubblicato poco prima del viaggio con Duchamp, a incipit di ciò che chiamerà «orfismo»:
Ammirate l’insigne potere
E la nobiltà della linea:
Essa è la voce che la luce fece udire
E di cui parla Ermete Trismegisto nel Pimandro
Nelle note esplicative Apollinaire insiste:
Presto -si legge nel Pimandro– discesero le tenebre e ne uscì un grido inarticolato che pareva la voce della luce». Questa «voce della luce» non è il disegno, ovvero la linea? E quando la luce si esprime pienamente tutto si colora. La pittura è in verità un linguaggio luminoso.
Così Duchamp, da buon orfista, ipotizza l’esecuzione del quadro per mezzo di sorgenti luminose, congela le sue figure nella trasparenza del vetro e immagina la strada iniziatica come una base spessa e solida, in «maçonnerie», con un vertice che sfuma in una «linea pura senza spessore», immersa in una nube di polvere d’oro più leggera dell’aria. Alla vetta del viatico iniziatico comincia la linea, ovvero la voce della luce di Apollinaire, cioè d’Ermete: Duchamp ha messo a frutto le meditazioni sul Pimandro.
Il Pimandro di Ermete Trismegisto
Apollinaire non dovette mancare nel far notare a Duchamp come il Pimandro non fosse meno spettacolare del congegno di Roussel, anzi. E come nei due cilindri di Roussel, l’uno sorgente di calore, l’altro capace di rendere liquido ogni gas, si potessero riconoscere i poli della genesi ermetica, la «natura umida» e il «puro fuoco».
Nel Pimandro è descritta la visione d’Ermete trismegisto: all’iniziato appare il nous, l’intelletto supremo, che con una visione lo avvia alla conoscenza degli esseri. A Ermete appare uno spettacolo infinito in cui tutte le cose sono diventate luce, e s’innamora di questa visione.
Però sopravviene un’oscurità che scende verso il basso e si muta «in una sorta di natura umida agitata in un modo indicibile e che produce una specie di suono, un gemito indescrivibile»: la caduta d’acqua di Duchamp. Questa natura umida «subito dopo emise un grido di aiuto, inarticolato, che somigliava alla voce della luce. Dalla luce un santo Logos si diresse verso la natura e dalla natura umida un puro fuoco si sprigionò dirigendosi verso l’alto»: ecco il gas illuminante, che ha per Duchamp «un’idea fissa ascensionale».
La luce è l’intelletto supremo, «che esiste prima della natura umida emersa dall’oscurità», ed esorta Ermete: «Orsù, volgi il tuo intelletto a questa luce e impara a conoscerla». Ermete ha un’ulteriore visione:
vidi nel mio intelletto la luce consistente in un numero infinito di potenze, vidi sorgere un mondo privo di limiti, vidi che il fuoco era imprigionato da una forza immensa e manteneva forzatamente l’immobilità. Mentre io stavo lì sbalordito, di nuovo mi si rivolse: «Tu hai visto nel tuo intelletto la forma archetipa, il principio del principio, che non ha fine».
La voce della luce è dunque l’accorato appello che proviene dalla «natura umida», divenuta tale per essere ‘caduta in basso’, immersa nell’oscurità; ed è proprio questa la condizione primigenia degli elementi del Grande vetro:
Dati (nell’oscurità) 1° la caduta d’acqua;
Sia, dati 2° il gas illuminante, nell’oscurità.
Condizione ripetuta due volte da Duchamp e circoscritta nel manoscritto da segni rossi. Si noti come la sequenza dei «Dati» di Duchamp rispetti l’ordine del Pimandro: prima l’oscurità, scendendo, si tramuta in natura umida, o caduta d’acqua, come si preferisce. Quindi dalla natura umida, che invoca aiuto e lo riceve dalla Luce prima, si sprigiona un puro fuoco che si dirige verso l’alto: il gas illuminante s’innalza successivamente.
Ma Pimandro, oltre l’educazione alla visione interiore della genesi cosmica, invitava calorosamente Ermete a volgere il suo intelletto a quella luce «di natura maschile e femminile» che esiste prima della natura umida. E per Duchamp il Grande vetro manifesta il «segno della concordanza» tra gli opposti, il principio generatore immobile e il mondo in moto.
Il Grande vetro è una macchina desiderante, ma ciò che la muove verso la vetta, sino al «rombo trionfale», è un anelito alla luce. Quest’opera non poteva dunque essere che la trasparente apparizione di «un mondo in giallo», epifania di quella «retta ideale» che annuncia «la voce della luce». Non poteva non essere un cosmogramma della luce androgina, un sigillo metafisico che attende la transustanziazione: «il processo creativo -ha dichiarato Duchamp nel ’57- assume tutt’altro aspetto quando lo spettatore si trova in presenza del fenomeno della trasmutazione; con il cambiamento della materia inerte in opera d’arte una vera e propria transustanziazione ha luogo».
Ripensando al suo ultimo lavoro, l’Etant donnés, alla donna che solleva la fiamma a gas, alla «natura umida» da cui si sprigiona il gas illuminante, non dispiace ricordare il ruolo che assegnava all’artista:
mantenere vive le grandi tradizioni spirituali con cui la stessa religione sembra aver perso il contatto. Credo che oggi più che mai l’Artista abbia questa missione da compiere: tenere accesa la fiamma di una visione interiore di cui l’opera d’arte sembra essere la traduzione più fedele per il profano.
I personaggi e i libri, in ordine d’apparizione
MARCEL DUCHAMP
Del normanno antico ha il volto aristocratico e affilato; dopo studî di filosofia approda a Parigi e frequenta la cerchia cubista negli anni ’10. Allo scoppio della Grande Guerra si trasferisce a New York. In contatto con i dadaisti prima e i surrealisti poi, è noto agli ambienti iconoclasti dell’arte per i ready made, letteralmente ‘prodotti pronti’: oggetti d’uso comune che Duchamp eleva al rango d’opere d’arte firmandoli e apponendovi scritte sibilline.
Mentre i più erano convinti che avesse smesso di occuparsi d’arte per gli scacchi (gioco in cui eccelleva: fece parte anche della nazionale di Alekhine), segretamente, e per vent’anni, ha lavorato ai Dati (Étant donnés), un complesso allestimento figurativo da osservare attraverso il buco di una porta, che compendia il suo pensiero. Se il Grande vetro è il motore -ebbe a spiegare- Étant donnés è il cofano. Si è spento nel ’68 e sulla sua tomba, per sua espressa volontà, è scritto: «d’altronde son sempre gli altri che muoiono».
I suoi scritti sono raccolti in M. Duchamp, Mercante del segno, Cosenza 1978. Per saperne di più sul personaggio propongo, dalla sterminata bibliografia, O. Paz, Apparenza nuda. L’opera di Marcel Duchamp, Milano 1990, per la limpidezza del testo, di mano d’un premio Nobel, che sa raccontare con gusto le avventure del pensiero.
GUILLAUME APOLLINAIRE
Muore trentottenne, falcidiato dalla Spagnola che imperversava verso la fine della Grande Guerra, dopo essere sopravvissuto alle gravi ferite in testa causate dall’esplosione d’una granata. Poeta ardito, cultore del verso libero e del calligramma, è noto nelle cerchie artistiche per le sue profonde conoscenze esoteriche, i cui classici legge con voracità.
Benché sia stato talvolta discusso come critico, lui ha pronunciato i due nomi del secolo agli esordî: Picasso e Matisse. E scusate se è poco.
I libri citati:
G. Apollinaire, Alcool Calligrammi, Milano 1986.
G. Apollinaire, Orfeo, in Il bestiario o corteo d’Orfeo, in Opera poetica, Bergamo 1981.
RAYMOND ROUSSEL
Dopo studî pianistici si dà alla poesia, «le parole vengono più facilmente della musica». Ma l’insuccesso lo perseguita e si rinchiude in una villa di famiglia. Scoperto dai surrealisti e celebrato come uno dei loro padri, li tratta gentilmente ma ritiene il loro lavoro «un po’ oscuro»; di lui dirà Duchamp: «Roussel si credeva filologo, filosofo e metafisico. Ma resta un gran poeta».
È morto a Palermo, nel ’33, al Grande Albergo delle Palme.
D’obbligo ricordare almeno R. Roussel, Impressioni d’Africa, Milano 1964.
ROBERTO GROSSATESTA
(Robert Greathead, 1175-1253) Figlio medievale tra i più fulgidi del platonismo, francescano e vescovo di Lincoln, ha allevato agli studî Ruggero Bacone.
Suo il principio secondo cui la natura procede nel modo più breve e ordinato possibile, ripreso da Francesco Bacone e Galileo. La luce è per lui principio attivo della materia, causa e forma prima d’ogni realtà corporea e ragione ultima della bellezza del mondo sensibile.
R. Grossatesta, La luce, in Metafisica della luce, Milano 1986.
ERMETE TRISMEGISTO
Figura leggendaria, è splendidamente intarsiata nel pavimento del Duomo di Siena (sopra).
Corpus Hermeticum, Pimandro, Milano 1991. Scritto forse ad Alessandria verso il II° secolo d.C., sintetizzando motivi pitagorico-platonici, stoici, persiani ed ebraici, il Corpus Hermeticum ebbe particolare fortuna nella Firenze medicea, dove lo tradusse Marsilio Ficino. Stampato per la prima volta nel 1471, conobbe sedici edizioni sino alla fine del Cinquecento.
Cfr. A. J. Festugière, La Révélation d’Hermès Trismégiste, Parigi 1950-54; F. A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1985.
Apollinaire aveva letto l’edizione di L. Ménard, Hermès Trismégiste. Traduction complète, précédée d’une étude des livres hermétiques, Paris 1886, comprendente i primi quattordici trattati e l’Asclepio. Sotto, l’edizione del 1867:
Impressions d’Afrique, p. 52: entra il chimico Bex con la sua scatola musicale di vetro: